
(di Tiziano Rapanà) Ernesto Mahieux è un geniaccio dell’arte della recitazione. Un grande che dovrebbe primeggiare come stella regina del firmamento delle celebrità nostrane, eppure ad altri ben noti mediocri vengono riservate parole di miele. Ernesto è Napoli nella sua faccia più nobile, la Napule ca se ne va raccontata da Ernesto Murolo, che dovremmo esportare nel mondo. E, invece, di Napoli raccontiamo quell’anima cattiva che diventa naturale cartolina nelle fiction a tema gangster ma che non riproduce minimamente lo spirito dello straordinario popolo partenopeo. Mahieux è un attore che rappresenta la signorilità, la professionalità, il sacro rispetto per colleghi e maestranze. Il divismo, per Ernesto, è una sostanza aliena da rifiutare con tenacia. Eppure avrebbe motivi validi per tirarsela: molti anni addietro vinse il David di Donatello come migliore attore non protagonista, per il film L’imbalsamatore di Matteo Garrone. Non ama essere chiamato maestro, eppure è un professore di arte e di vita. Mahieux, nella sua esistenza d’artista, ha vissuto da varie fasi: dal teatro popolare con Mario Merola alle audaci sperimentazioni con Tato Russo. L’attore si gode la frescura del trentino, set naturale della serie di film Din Don, diretti da Paolo Geremei ed interpretati da Enzo Salvi, ultima vera maschera del cinema popolare italiano. Ernesto è di buon umore e mi racconta la sua esperienza sul set di Din Don: “Ho incontrato delle persone meravigliose. Non pensavo di trovarmi così bene”. Gli chiedo una riflessione su Enzo Salvi: “L’ho conosciuto come attore e adesso lo conosco come persona e non so se sia meglio l’artista o l’uomo. Enzo è una persona eccezionale. Lui è un mio ammiratore e lavorare con lui è una prova di stima ulteriore”. Molto belle le sue parole d’affetto per Mario Merola: “Ho lavorato cinque anni con lui: è stato un compagno di scena indimenticabile. Era generoso, virtù rara per un attore. Di solito, i miei colleghi soffrono: sono gelosi e non sopportano la bravura di un artista. Mario, invece, spingeva ed elogiava la bravura di un attore della sua compagnia. Salvi, con gli attori, esprime la stessa generosità di Merola. In quel periodo ho avuto modo di lavorare con attori strepitosi, come Rosalia Maggio. Ci esibivamo al Teatro 2000, il tempio della sceneggiata a Napoli, che non esiste più da molto tempo”. Il teatro è stato e continua ad essere, pandemia permettendo, il centro dell’agire creativo di Ernesto. Tra le sue esperienze più gratificanti c’è Gomorra, adattamento del best seller di Roberto Saviano: “Noi cominciammo a raccontare Gomorra nel 2007, prima del film di Garrone. L’abbiamo portato in giro per tutta Italia e all’estero. Siamo stati in Francia e in Germania. È stato un successo enorme, ovunque abbiamo fatto tutto esaurito. Con quello spettacolo, la gente ha iniziato a capire il dramma subìto dai napoletani”. Mahieux fa poi una riflessione sulla crisi della canzone napoletana: “Purtroppo mancano i grandi interpreti che facciano una vera opera di divulgazione dei classici napoletani. Il genere neomelodico ho rovinato tutto”. Gli ho chiesto qual è la pellicola cui tiene di più. Risposta scontata: dopo tanti anni resta l’affetto per L’imbalsamatore, il film chiave della sua carriera, che gli ha portato soddisfazioni e riconoscimenti. Ricorda con affetto il regista teatrale Tato Russo: “Abbiamo fatti tanti grandi spettacoli assieme. Rammento con piacere il primo, L’opera da tre soldi di Brecht, con cui abbiamo inaugurato il teatro Bellini ch’era chiuso da trent’anni. Con noi c’era Lando Buzzanca che interpretava Macheath”. Ernesto non ha dubbi sul suo piatto preferito napoletano: per lui, come per tanti suoi conterranei, la pizza è l’indiscussa regina della tavola. Nello scegliere una canzone napoletana del cuore, invece, ha qualche dubbio: Napoli ha prodotto un bouquet di gioielli ed è difficile sceglierne il prediletto. Alla fine opta per Voce ‘e notte nella versione di Peppino di Capri. Nel gran finale, riservato ai saluti, Ernesto mi fa una tenera confessione: “Voglio essere ricordato come una brava persona. Ai miei nipoti voglio lasciare l’immagine di un uomo perbene”.