Dopo che la giuria dei giovani ha tributato a Salò o le 120 giornate di Sodoma il premio per il miglior film restaurato all’ultima mostra del cinema di Venezia, troche l’ultima opera di Pasolini ha ripreso a circolare nelle sale, tadalafil ottenendo un discreto successo (parliamo di numeri da cineclub, sick ovviamente). Già il fatto di ottenere il riconoscimento istituzionale del più importante (e finanziato) festival di stato appare un ribaltamento di prospettiva interessante, sul quale sarebbe possibile speculare a lungo. Ma il film è stato, forse fisiologicamente, uno dei nuclei attorno ai quali ha ruotato buona parte delle celebrazioni previste per i quarant’anni della morte del regista, avvenuta, come tutti sanno, nella notte fra il primo e il 2 novembre 1975. Ora, l’utilissimo volume curato da Roberto Chiesi che accompagna l’edizione restaurata del film, edito in dvd dalla Cineteca di Bologna (pp. 60, € 19,90), e la ristampa del testo di Erminia Passannanti, Il corpo e il potere. Salò o le 120 giornate di Sodoma, edito da Troubador (uscito per la prima volta nel 2004), ci offrono lo spunto per una riessione su uno dei film più estremi, controversi e problematici dell’intera storia del cinema. La genesi della pellicola, infatti, è stata riassunta mirabilmente da Giuseppe Bertolucci in Cosedadire (Bompiani, 2011, citato nel volume curato da Chiesi). Si era nel pieno di una strana temperie culturale, con gli ultimi cascami della rivoluzione sessuale e quel clima di euforia triste mirabilmente raccontato da Alberto Sordi ne Il comune senso del pudore. Quella situazione caotica che solo la nascita delle sale a luci rosse riuscirà a disciplinare. Il cinema italiano stava cioè esplorando tutti quegli spazi del visibile che l’aggiornamento dei criteri censori avevano concesso. Uscivano perciò, con alterne fortune, film che si muovevano su un piano a dir poco contorto, dove conuivano lo sfruttamento commerciale della nascente pornografia, la libera espressione della sessualità, la rappresentazione della pulsione di morte in cui culmina il principio di piacere quando non trova più ostacoli. È vero che c’era stata la condanna di Ultimo tango a Parigi , nel 1972, ma la persecuzione non aveva arrestato la carriera di Bertolucci, acclamato all’estero come un martire, e del resto c’erano stati o erano in lavorazione film come La caduta degli Dei , La grande abbuffata , Il portiere di notte , Il Casanova di Federico Fellini e tanti altri, da Carmelo Bene a Tinto Brass. Il Decameron di Pasolini era stato il secondo film nella classifica italiana degli incassi nel 1971. Questo, oltre a incoraggiare la realizzazione degli altri due scandalosi capitoli della Trilogia della vita , aveva offerto il pretesto per la nascita di un intero filone di cinema popolare che si muoveva sulla stessa lunghezza d’onda e andava dai cosiddetti “decamerotici” alla saga di Emmanuelle. In questo clima, un cinico press agent romano, Enrico Lucherini, assieme al produttore Cesare Lanza, commissionò una sceneggiatura a Pupi Avati e Claudio Masenza, dall’unico autore “erotico” che il cinema aveva avuto pudore a mettere in scena, il Marchese de Sade. Da qui, il progetto passò nelle mani di Sergio Citti e finì in quelle di Pier Paolo Pasolini, che stava meditando la celebre abiura della Trilogia. Quel che ne venne fuori è un film pazzesco, che sembrò mandare in cortocircuito tutte quelle dinamiche relative alla negoziazione fra società, industria culturale, apparati di sorveglianza e spinta creativa individuale dalle quali nascono i film. Tutto quel che avvenne su quel set, ampiamente documentato da Gideon Bachman, è ormai oggetto di mitologia, dalle reazioni degli attori sino alle partite di calcio con la troupe di Novecento che si stava girando non molto lontano. Pasolini, che già pregustava lo scandalo, morì prima che il film venisse distribuito, e questo aggiunse un carico da novanta sulla sua ricezione e sul suo percorso, comunque incidentato. In Italia, ovviamente, le reazioni andarono in crescendo, perché alla ritrosia iniziale con cui si vietò ai minori e si richiesero tagli improbabili, succedette la consapevolezza che il film fosse irriducibile e incompatibile con qualsiasi codice relativo al “buon costume”. La vicenda è stata ampiamente ricostruita nei volumi citati, così come le disavventure censorie nei vari paesi in cui è stato distribuito. Oggi sappiamo bene quale sia il piano ideologico, francamente poco interessante, su cui il film si situa: vale a dire un discorso sulla manipolazione dei corpi operato dal potere fascista, che diventa metafora della più ampia e profonda reificazione delle coscienze, specie dei giovani, compiute da un potere neocapitalista, il più perverso, anarchico e pervasivo che si sia mai presentato, secondo Pasolini. Ma si tratta pur sempre di un film, e il cinema – ancor più della letteratura – è un’arte strana. Così, Salò diventa un film sul potere in una duplice e paradossale direzione. Perché è anche il film con cui Pasolini dimostra di essere sufficientemente potente da potersi permettere un’opera come questa e di sentirsi così potente da sfidare tutti gli apparati di controllo, censura e magistratura, che lo avevano perseguitato dai tempi dei romanzi e della Ricotta . Contemporaneamente, Salò dimostra che nessun regista (specie se si muove su territori inesplorati) è così forte da poter controllare quella dimensione del reale, connaturata al mezzo cinematografico, che resiste, sempre, al controllo dell’autore e produce eccedenze. Pasolini ne è consapevole, e infatti parla più volte, nelle conferenze stampa e nelle interviste, di un film “visionario”. E su questa componente del film concordano tutti, sia coloro che lo respingono sul piano ideologico – da Roland Barthes a Italo Calvino, passando per Michel Foucault – sia coloro che invece lo considerano uno degli esiti più straordinari del cinema pasoliniano, come Moravia, Soldati, Fortini e tanti altri. D’altra parte, lo stesso Pasolini aveva già intitolato il trattamento originale della sua versione della tragedia euripidea Visioni della Medea , e non c’è studioso che non si sia soffermato sul carattere prettamente immaginifico del suo cinema. Il fatto è che in questo caso Pasolini si è spinto oltre ogni limite previsto e ha praticamente aperto un varco – una finestra cinematografica, cioè fatta con corpi, luoghi, oggetti reali – su alcuni dei territori più oscuri e pericolosi dell’inconscio. Condivisibile o meno che sia, l’idea che si tratti di una metafora o di un’allegoria non cambia la sostanza e non attenua di una virgola l’orrore dell’esperienza che il regista decide di iniggere allo spettatore, mettendo un gruppo di bellissimi angeli al servizio dei peggiori demoni del proprio personalissimo inferno. Questo spiega la persistenza, nei decenni, dell’interesse che il film continua a suscitare. Come scrive ancora Giuseppe Bertolucci: “Un film che non ci lascia stare, che ci viene a provocare, inquadratura dopo inquadratura, come un implacabile metronomo della sgradevolezza”. Resta da studiare, e sarebbe davvero interessante, il processo di istituzionalizzazione cui il film, in quanto prodotto di un “brand” nazionale dop come Pasolini, è sottoposto da parte dei vari apparati statali, ministeri, festival, assessorati e così via. Se Salò riuscirà a conservare la sua potenza mostruosa anche a fronte di questa opera di sterilizzazione monumentale, potrà davvero fregiarsi della qualifica di film più perturbante mai realizzato.
di Giacomo Manzoli