di STEFANO LORENZETTO
Avete dei figli che non lavorano. Magari stanno studiando per prepararsi al futuro, però ancora non sanno che cosa vorrebbero fare. Anche se lo sapessero, cambierebbe poco: l’impiego cui aspirano non c’è. Non sotto casa, non in Italia. Oppure avete dei figli che non studiano e non lavorano. Che cercano, ma non trovano. Che trovano, ma non resistono. Che resistono, ma non guadagnano.
È un dramma collettivo, nazionale ed epocale, quello che va in scena da troppo tempo in Italia. A dicembre ha raggiunto l’acme: il 40,1% dei giovani fra i 15 e i 24 anni – certifica l’Istat – sono disoccupati, e non accadeva dal giugno 2015. Roba da premio di maggioranza, se si mettono d’accordo vanno al governo.
Manca il lavoro o manca la voglia di lavorare? Storica vexata quaestio. Un po’ e un po’, verrebbe da rispondere. Uno degli ostacoli insormontabili che abbiamo incontrato nel reclutare un grafico per questo giornale è stato il seguente: La Verità non esce il lunedì (quindi non si lavora nei giorni festivi e ciò è molto apprezzato dalle nuove generazioni), però va in edicola la domenica (e sgobbare di sabato non piace a nessuno). Mesi di ricerche. Ma poniamo che io tornassi ad avere 14 anni (da non augurarselo). Anche se volessi diventare giornalista, non potrei farlo. L’ho dedotto da un modesto sondaggio che ho svolto nei giorni scorsi fra i 300 studenti delle ultime classi di tre licei, classico, scientifico e linguistico, riuniti in un’aula magna per sentirmi parlare sul tema Esiste la verità nei giornali?, scelto da loro. Ho esordito a bruciapelo: quanti di voi leggono un quotidiano? Nessuno ha alzato la mano. Strano, poco prima nell’androne avevo visto 50 copie omaggio, intonse, del Corriere della Sera, destinate proprio a loro (capito come si tiene su la diffusione?). Ora, mi pare evidente che, essendo i giornali in via d’estinzione per mancanza di giovani lettori, presto non ci sarà bisogno neppure dei giornalisti. Quindi, qualora fossi costretto a reincarnarmi, sarei condannato alla disoccupazione.
Lo dico da sessantenne: che epoca meravigliosa ci fu data da vivere, senza che neppure ce ne accorgessimo! O per necessità o per diletto, si cominciava a lavorare fin da ragazzi. Non occorreva presentare domanda. Ruggero Bauli (pandori) a 9 anni era già piccolo di bottega da Bertoldi in piazza Erbe, a Verona, e a 13 lo mandarono a imparare come si fanno le paste a Tione, in Trentino. Renzo Rossetti (Fratelli Rossetti, scarpe) a 10 anni fu messo a ungere le catene nello zuccherificio di Sanguinetto. Ne aveva 60 di più quando mi svelò il suo rimpianto per non esser potuto andare a caccia di rane nei fossi con i suoi compaesani Giulio Nascimbeni e Renato Olivieri, destinati a diventare giornalisti, che erano esentati dal lavoro minorile in quanto di famiglia benestante. Giancarlo Aneri (vini, olio, caffè) affinò le sue doti naturali di venditore a Legnago fin dall’età di 11 anni. Acquistava per 15 lire i cioccolatini Ferrero, li tagliava in quattro pezzi e riusciva a rivendere le singole porzioni a 10 lire ciascuna, guadagnandoci il 167%. Gli acquirenti erano i suoi amichetti, non troppo svegli, direi. Un’estate riuscì anche ad arruolarli gratis nel suo chiosco di granite. Loro tritavano il ghiaccio, miscelavano menta e tamarindo, lavavano i bicchieri; lui incassava. Finché un barista sull’orlo del fallimento non segnalò l’attività commerciale ai carabinieri, che appiopparono una multa al padre del ragazzino e posero fine all’esperimento.
L’altoatesino Eduard Baumgartner (Fercam e Gondrand, autotrasporti) frequentava ancora le elementari quando, con le mance che riceveva per tenere in ordine il campo di bocce nell’albergo Rose Wenzer gestito dalla madre, comprò 200 pulcini, se li portò a casa in una gerla caricata sulle spalle e li allevò sino a farli diventare polli, che furono cucinati per i clienti del ristorante e gli valsero, a 15 anni, l’accesso in una macelleria di Merano con la qualifica di garzone.
Vi starete chiedendo in che cosa differiscano i tempi presenti da quelli passati. Spiego subito: lo spirito d’intraprendenza 50 anni fa era considerato normale e necessario. Veniva incoraggiato, remunerato, applaudito. Oggi che è svaporato dal Dna degli italiani, addirittura lo puniscono. Onore, dunque, alla Fondazione Einaudi di Torino per aver premiato con una borsa di studio uno studente diciassettenne che – spinto dal bisogno, immagino – rivendeva ai compagni di scuola le merendine comprate al supermercato. Sapete che cosa è accaduto subito dopo al volenteroso? È stato sospeso dalle lezioni per 15 giorni; 500 studenti hanno organizzato un presidio di protesta davanti all’Itis di Moncalieri additandolo come evasore fiscale; l’assessore regionale al lavoro (al lavoro!) e all’istruzione, Gianna Pentenero, l’ha esposto al pubblico ludibrio in quanto è «sbagliato far passare il messaggio secondo il quale non rispettare le regole viene letto come un’innovativa capacità imprenditoriale». Snack da 30 centesimi rivenduti a 50, capito che ricarico?
Di recente ho rivisto a un incontro pubblico il mio compagno di banco delle magistrali, Gustavo Rebonato. «Nel lontano 1971 io avrei meritato il Nobel per l’economia», mi ha detto, «considerato che sono arrivato a portare quotidianamente all’istituto Carlo Montanari fino a 37 rosette calde, personalizzate con mortadella, soppressa, pancetta, prosciutto e formaggio, rispettando esattamente la nota d’ordine che raccoglievo il giorno precedente durante la ricreazione, non solo tra i compagni, ma persino tra i professori, incluso il timido preside, Angelo Zampieri». Va precisato che, abitando a Bovolone e dovendo salire alle 6.35 sul pullman che lo avrebbe condotto a Verona, Gustavo (nomen omen) era alle prese con i tempi ristrettissimi intercorrenti fra l’uscita della materia prima dal forno – intorno alle 6 – e il lavoro certosino di preparazione dei panini nella salumeria della madre, la stessa dove aveva già dato prova di vivo ingegno mercantile, bruciando in pochi giorni le scorte dell’olio di semi Gico che a 300 lire nessuno voleva ma che in «offerta speciale» (3 lattine, 1.000 lire) andò a ruba.
La parte più difficile, per l’improvvisato venditore, era superare la barriera del bidello portinaio, molto interessato alle vendite di patatine San Carlo ormai mollicce e di pessimi sandwich con mono fettina di prosciutto tendente al verdognolo, in mostra dietro la vetrina appannata di un triste frigorifero, smerciati a 70 lire cadauno, contro le 50 lire delle ineguagliabili michette, super imbottite e fresche, di Rebonato. Il quale un brutto giorno fu pertanto convocato dal preside, costretto a porre fine a quel traffico prima che scoppiasse la rivolta degli inservienti. «Coraggio, lei è qui per imparare a fare il maestro, non il commerciante. Un giorno capirà», lo consolò paterno il professor Zampieri, elargendogli una pacca sulla spalla. Di quell’epopea, il mio amico ha conservato la finta borsa da ginnastica in cui trasportava i panini: non ha più voluto usarla. Sua madre Lina, 93 anni giovedì prossimo, nei rari sprazzi di lucidità mentale gli chiede: «Véndito ancora panéti a scóla, Gustavo? Me racomando, incàrteli pian pianin, uno par uno».
Ecco, l’Italia si preparava al lavoro così: lavorando. Ed erano sempre, se devo giudicare dalla mia esperienza, impieghi inventati lì per lì, umilissimi. Il mio primo incarico, non retribuito, lo ebbi nel signorile palazzo dove ci eravamo trasferiti a vivere dopo che il più grande dei miei fratelli era stato assunto in banca. Dovevo presidiare la guardiola della portinaia. Costei nel frattempo saliva al terzo piano a stirare nell’appartamento di un’insegnante coniugata con un militare. Qualora si fossero presentati all’ingresso i proprietari del fabbricato che la stipendiavano, io avrei dato l’allarme. Ore e ore passate a guardare il monoscopio della Rai, in attesa che cominciasse la Tv Ragazzi. Con l’intervallo a immagini fisse dell’Italia in bianco e nero e la Passacaglia di Händel o la Toccata di Paradisi in sottofondo.
In seguito acquistai per 12.000 lire una Lubitel, una 6×6 a pozzetto di fabbricazione sovietica che a me sembrava uno splendido succedaneo della Rolleiflex, e scattai le foto alle vetrine del negozio di abbigliamento Olivieri e Venturi, queste sì retribuite dal proprietario, Palmiro Olivieri, fratello di Aldo, il portiere campione del mondo nel 1938. Da lì il salto a proiezionista con le macchine Fedi a carboni, prima all’Aurora e poi all’Alcione, dove d’estate in cabina si sfioravano i 45 gradi, e l’incubo di Via col vento, una quindicina di pizze da unire l’una all’altra con pennellate di acetone, 6 chilometri di pellicola in celluloide che scorrevano fra i polpastrelli di pollice e indice fino a tagliarteli. Ma sono stato anche attacchino di locandine, buttafuori, maschera, venditore di Coca-Cola.
Infine l’ingresso nell’agognata professione, con i giornali fatti in casa, i titoli ricalcati a mano dai caratteri di quotidiani e settimanali, una lampada sotto un cristallo per poter lavorare in trasparenza, i testi battuti con la Olivetti Lettera 22. La svolta avvenne il giorno in cui incappai in un ambulante che dentro una valigia logora custodiva un centinaio di boccette, tipo elisir medicamentosi da imbonitori del Far West. Miracolo! Con un batuffolo di cotone passavi la sua lozione su un foglio di carta bianco, appoggiavi la facciata inumidita sopra la fotografia di un rotocalco e, oplà, l’immagine si stampava alla rovescia sulla pagina vuota. A quel punto potei vendere le testate illustrate di mia produzione a un collezionista che me le commissionava per 30 lire l’una, un compagno di classe della scuola media ipnotizzato da quei prodotti. Ancor oggi oso pensare che ne fosse attratto perché il suo occhio era allenato alle cose belle: aveva un padre gioielliere. E anche una sorella molto avvenente. Infatti anni dopo mi capitò d’intervistarla perché Novella 2000 l’aveva indicata come fidanzata segreta di Mario Jutard e causa dello strappo sentimentale fra il playboy e Stéphanie di Monaco, terzogenita di Ranieri III e della principessa Grace.
Quando è andata perduta nei nostri figli l’atavica attitudine per il lavoro, soprattutto quello artigianale, che aveva fatto degli italiani il miglior popolo manifatturiero del pianeta? Con il benessere diffuso, è l’unica risposta che so darmi. Per evitare ai figli le fatiche che sono toccate a noi, li preserviamo fin da piccoli da qualsiasi incombenza, anche la più innocua. Gli effetti sono paradossali. Avete mai sentito parlare di Bes? La sigla è stata introdotta nella scuola primaria cinque anni fa. Sta per «bisogni educativi speciali». Dal Bes sarà dura arrivare al best. Un bambino non è capace di scrivere un’intera pagina di dettato perché si affatica o si deconcentra? La maestra è obbligata a dargliene solo mezza. Ancora non ce la fa? Deve consegnargli il dettato già compilato: completerà solo qualche parolina mancante, contrassegnata dai puntini di sospensione. Altrimenti è lo stesso: un Bes va salvaguardato. Ha diritto agli «strumenti compensativi o dispensativi»: tre moltiplicazioni invece di dieci, le divisioni fatte con la calcolatrice anziché con la mente, le risposte alle tabelline consultando la tavola pitagorica. Ma zero per zero dà sempre zero. Lo sapranno i ministri della Pubblica Distruzione? Ne dubito. Infatti quella in carica, Valeria Fedeli, si è spacciata per laureata senza aver neppure conseguito il diploma magistrale. Una Bes honoris causa.
Stefano Lorenzetto, La Verità