Il calcio è un sistema economico che ha peculiarità proprie, è un ordinamento complementare: una squadra ha bisogno di un’altra o, ancor meglio, ha bisogno di altre 17 squadre per creare il prodotto. È un modello economico che si basa soprattutto sulla passione e sull’amore dei propri tifosi». Coniugare questo mondo alla sostenibilità è il filo conduttore di Soldi vs Idee, scritto da Michele Uva, insieme alla giornalista Maria Luisa Colledani. Lucano di Matera con una lunga carriera nello sport e incarichi in discipline che negli anni hanno abbracciato la pallavolo, la pallacanestro, il Comitato olimpico e la FIGC, oggi Uva è direttore di Social & Environmental Sustainability della UEFA. Il concetto di sostenibilità sviscerato nel libro riguarda diversi aspetti: finanziario, ambientale, sociale, sportivo. «Ci sono concetti che devono essere applicati – e in modo specifico – perché il calcio muove la passione di un miliardo di persone al mondo».
Facciamo un passo indietro: gli anni Ottanta e Novanta in Italia, Francia, Inghilterra in particolare hanno visto i grandi club europei di proprietà di importanti famiglie, cosa è cambiato oggi?
«Una volta c’era quello che nel libro chiamiamo “mecenatismo”, basato sulle passioni di imprenditori che potevano supportare un business in quel momento sostenibile per loro. Dal 2000 a oggi, la crescita dei fatturati è stata esponenziale, le esigenze strutturali e organizzative sono aumentate e – tranne qualche famiglia che nel calcio è rimasta – altre hanno scelto di concentrarsi sulle proprie attività mettendo sul mercato l’azienda-calcio che è diventata oggetto di interesse di investitori che hanno modificato la faccia del sistema. Così sono arrivati investitori, talvolta rappresentati da fondi internazionali, che hanno scelto il calcio fondamentalmente per motivi finanziari o reputazionali».
Contemporaneamente anche l’UEFA ha lavorato per stare al passo con questa nuova realtà proponendo alle squadre parametri di controllo, fino all’introduzione – nel 2010 – del Financial Fair Play.
«E non ci siamo fermati. Abbiamo lavorato per step, in tre momenti: all’inizio del 2000 la UEFA ha dato il via a un sistema di licenze con cinque criteri da rispettare (legale, economico finanziario, sportivo, organizzativo e relativo alle persone, infrastrutturale). Quindi, a fine 2010, ha rafforzato i controlli nel settore economico-finanziario creando il Financial Fair Play; e, non più tardi di un anno fa, c’è stata una nuova rivoluzione in cui sono cambiati i parametri da rispettare. Tuttavia bisogna ricordare che i protocolli della UEFA sono applicati ai club che partecipano alle nostre competizioni: in Italia, ad esempio, agiscono su 7 squadre, le altre 13 sono sotto il sistema delle licenze nazionali. La cosa importante è che le federazioni agiscano perseguendo gli stessi obiettivi per avere un sistema equo e omogeneo».
E questo succede?
«Le prime due fasi sono state ben supportate dalle federazioni. In alcuni casi – ad esempio nel 2015 – l’Italia aveva adottato delle regole che erano più stringenti rispetto a quelle della UEFA. Adesso ci si augura che anche per il terzo step si vada tutti nella stessa direzione».
La squadra europea con il valore più alto è il Real Madrid (5,1 milioni di dollari). La prima italiana nella classifica di Forbes è la Juventus (2,45) che si trova al 9° posto; in mezzo ci sono Barcellona, Manchester United, Liverpool, Bayern Monaco, Manchester City, PSG e Chelsea: come si spiega la presenza massiccia di formazioni inglesi?
«Hanno ragionato da sistema mettendo da parte tutte le esigenze di ogni singolo club per radunarle in un grande contenitore che si chiama Premier League e dato mandato al management di creare valore comprendendo da subito che questo avrebbe portato vantaggi e sviluppo del brand a tutte e venti le squadre iscritte. Oggi la Premier registra ricavi per 7,1 miliardi di euro, a inizio 2000 era livello dell’Italia (che si attesta ora a 2,4 miliardi): in 20 anni gli inglese sono riusciti a quadruplicare il proprio valore. Sono stati attenti al prodotto, l’hanno internazionalizzato subito – favoriti anche un po’ dalla lingua – hanno anticipato più di tutti l’allargamento oltre i confini entrando nel sistema di altri 210 Paesi nel mondo che sono interessati a comprarne i diritti – non solo televisivi. Sono stati i primi, ad esempio, a creare partnership commerciali per ogni nazione diversificando e aumentando le loro sponsorizzazioni».
In questo la tecnologia aiuta: durante le partite i tabelloni a bordo campo hanno pubblicità “tailor made” che cambia a seconda che il pubblico guardi la partita da una nazione piuttosto che da un’altra.
«Esatto. La tecnologia è stata di supporto non solo nella parte sportiva – match analisys e scouting di giovani talenti nel mondo – ma anche quando è stata applicata all’area commerciale. Come sempre quando si parla di business, ma non solo, l’ideale è anticipare i tempi. Chi entra sul mercato prima guadagna quote e chi deve investire lo fa su chi è pronto. La Liga spagnola, ad esempio, sta accelerando molto su questo punto».
«STRUTTURE CHE TI LASCIANO SOTTO L’ACQUA PER NOVANTA MINUTI NON DANNO L’IDEA DI CURA E MODERNITÀ»
E l’Italia?
«Deve investire e fare sistema per guardare avanti e colmare il gap».
Gli investitori stranieri possono aiutare?
«Stanno portando nuova linfa sia in soldi che in idee: quasi tutti hanno comprato per fare profitti. Il rischio certo è quello che il business esasperato faccia perdere i contatti e il rapporto con il territorio perché sono poco interessati ai settori giovanili, al calcio femminile, all’integrazione con la comunità locale. Per questo bisogna creare regole, per evitare che ci sia questo scollamento e che vengano invece rispettati parametri di sostenibilità sportiva, ambientale, sociale. Il calcio deve accogliere ed essere inclusivo, ha un grande ruolo. E deve radicarsi nel proprio territorio, ad esempio investendo nel sociale e monitorando i giovani cercando talenti nel resto del mondo solo in un secondo momento».
Secondo UEFA Club Licensing Benchmarking Report 2023 sono 92 i team europei che hanno cambiato proprietà e che sono stati acquistati da investitori stranieri (pre-Covid erano 67): cos’è successo all’azienda-calcio con la pandemia?
«Quei mesi difficili hanno risvegliato la voglia di lavorare insieme, tralasciando le individualità. I dati mostrano che si è tornati al periodo pre-Covid, le presenze negli stadi sono anche aumentate, si sta manifestando la voglia di socialità e desiderio di esternare la propria passione. Così il sistema si è riposizionato. Servono nuove idee per sfruttare lo slancio positivo».
Quanto è importante uno stadio-casa da vivere oltre i 90 minuti?
«È un concetto cui tengo molto, ne parlo fin dal mio primo libro, La ripartenza (Il Mulino, 2010), termine preso in prestito da Arrigo Sacchi con cui ho condiviso l’esperienza a Parma, lui allenatore io direttore generale. Lo stadio è la casa della passione, è la casa dei colori di una città, di un club, è il centro fondamentale della socialità. Avere una casa confortevole e aperta a tutti è un diritto per ogni tifoso. Poi che lo stadio sia di proprietà o – come in Germania – condiviso tra club e municipalità, cambia poco. Il tifoso ha diritto ad avere uno luogo di riferimento fruibile con servizi, dove anche chi è diversamente abile può assistere alla partita e dove le famiglie con bambini possono andare in tranquillità trovando servizi adeguati. Una struttura che ti lascia sotto l’acqua per 90 minuti non trasmette un segnale di modernità e di attenzione».
Negli ultimi 10 anni in Europa sono stati costruiti 103 nuovi stadi e ne sono stati ristrutturati 30.
«Lo stadio resta il cuore della squadra. Certo poi servono un centro di allenamento moderno, dove dare spazio anche al calcio femminile e ai settori giovanili. Non c’è nessuna attività a livello mondiale che mette insieme 80 mila persone fisicamente in un unico momento, a volte anche in un giorno infrasettimanale: serve ristrutturare rendendo gli spazi più moderni. E per fare questo bisogna seguire nuove regole per ridurre l’impatto ambientale. Energia green, compostaggio dei rifiuti, riciclo dell’acqua, uso di fertilizzanti naturali fanno sì che ci siano stadi che generano più energia di quella che consumano. È un investimento sul futuro».
Lo stadio più green?
«Il progetto più innovativo è quello firmato dallo studio di Zaha Hadid per la squadra dei Forest Green Rovers, un club inglese di terza divisione: sarà in legno circondato da un parco. Ma ormai tutti i nuovi progetti – basta guardare la struttura inaugurata nel 2019 dal Tottenham – puntano alla sostenibilità».
Il libro si chiude con una riflessione sul calcio femminile.
«Insieme al settore giovanile, rappresenta la porta verso il futuro. Non è un fenomeno, ma un traino sportivo, sociale, culturale. Bisogna investire in progettualità senza copiare il calcio maschile, ma prendendone solo i pilastri positivi. In Italia nel 2015 erano 15 mila le donne tesserate, ora sono quasi 50 mila. L’obiettivo deve essere quello di incentivare tutte le professionalità femminili nel mondo del calcio – dirigenti, arbitre, ceo di club – bisogna dare loro un’equa opportunità».
Manuela Croci, corriere.it