La pandemia da coronavirus è un evento senza precedenti nel mondo globalizzato, che in neanche un mese ha sconvolto le agende e i programmi economici e politici di tutti i Paesi. Tra i pochissimi effetti non negativi, è il calo dell’inquinamento atmosferico e delle emissioni di gas serra in queste settimane di quarantena planetaria; effetto che però deriva soltanto dal crollo della produzione industriale e dei trasporti, con le relative conseguenze in termini economici e di restrizione delle libertà di movimento, e questo impedisce di potersene rallegrare.
Il timore che si fa strada, però, è che questo momentaneo “sollievo” per l’ambiente sia soltanto l’anticamera di un successivo aggravamento delle sue condizioni, dovuto all’allentamento di vincoli, obblighi, divieti e incentivi, che nel mondo “pre-Covid” erano stati adottati dalle istituzioni nazionali e sovranazionali per favorire la sostenibilità nella produzione e nel consumo di beni e servizi, mentre nel mondo “post-Covid” potrebbero essere visti come ostacolo alla ripresa economica.
Mi riferisco, per esempio, agli obiettivi europei in materia di riduzione delle emissioni di anidride carbonica, o anche – strettamente collegato e più concreto – alle limitazioni imposte alla circolazione dei mezzi di trasporto più inquinanti.
Se questo timore dovesse concretizzarsi, il bilancio finale per l’ambiente sarebbe pesantemente negativo, e si vanificherebbero anni di politiche finalmente virtuose, e decenni di impegni che, pur in ritardo e con troppa lentezza, hanno riconosciuto il surriscaldamento globale come una minaccia per la sopravvivenza della specie umana (il pianeta si salverà in ogni caso). Ecco che quindi occorre scongiurare questo scenario deleterio non tanto per la Terra in sé, quanto per la Terra come nostro habitat.
Al di fuori di ogni retorica sul “trasformare la crisi in opportunità” – frase che può perfino suonare irritante se la crisi è la più grave da ottant’anni a questa parte -, dobbiamo fare concretamente in modo che la recessione che ci attende sia almeno neutrale rispetto all’ambiente, e che la ripresa invece sia positiva e avvenga all’insegna di una economia più verde e circolare di quella del mondo di prima.
A livello europeo, è necessario un impegno delle istituzioni comunitarie che sappia coniugare l’iniezione di liquidità e il sostegno al lavoro con il potenziamento degli investimenti e l’attuazione di politiche per l’efficienza energetica e la riduzione dell’intensità di carbonio in tutti i settori economici.
Negli ultimi mesi del 2019, ormai un secolo fa, la Commissione europea aveva annunciato un “Green New Deal”, una strategia a medio-lungo termine (orizzonte 2050) per rendere l’economia dell’Unione sostenibile e disaccoppiata dall’uso di risorse (cioè pienamente circolare).
Questo piano europeo, più volte ripreso con entusiasmo anche dal nostro governo, dovrebbe mobilitare 100 miliardi di euro in sei anni per sostenere i settori più coinvolti nel cambiamento di paradigma. Oggi, nel pieno dell’emergenza coronavirus, la Commissione europea ha risposto tempestivamente, sebbene ancora in modo insufficiente, varando programmi di sostegno all’occupazione, sospendendo il Patto di stabilità, garantendo flessibilità sugli aiuti di Stato e sui fondi strutturali inutilizzati.
Tutto questo, e auspicabilmente molto altro (gli Eurobond?), dovrebbe accompagnare e integrare il cosiddetto nuovo “piano Marshall” per permettere la ricostruzione economica e sociale dei Paesi più colpiti, Italia e Spagna in testa.
Green New Deal e nuovo piano Marshall europeo. Anche nel nome, entrambi si ispirano a teorie keynesiane che al momento appaiono le uniche in grado di tirare fuori l’Europa, soprattutto del Sud, dalle secche in cui è destinata a sprofondare. Non potrebbero, i due piani, fondersi almeno per i prossimi anni? O, meglio, non potrebbe il Green New Deal europeo costituire una parte del piano Marshall post-Covid?
Le risorse che l’Europa sarà in grado di stanziare e distribuire agli Stati membri per sostenere nell’immediato la ripartenza, potrebbero e anzi dovrebbero comprendere finanziamenti, incentivi, aiuti (sì, non vergogniamoci della parola aiuto) per i produttori e i consumatori che scelgano di investire sulla sostenibilità (i cui costi sono generalmente più alti dell’economia tradizionale basata sui combustibili fossili, che oggi hanno pure il vantaggio di prezzi ai minimi).
In questo piano “Marshall Green”, spetterà poi al singolo Stato membro, all’Italia, destinare le risorse, in parte provenienti dall’Europa, in parte reperite a debito (molto più facile che attraverso risparmi), all’economia reale. E dovrà farlo senza morire di strategia (la risposta deve essere immediata e adeguata nelle dimensioni), ma anche senza essere miope o peggio daltonica, scambiando il colore verde con il grigio.
Si pensi al settore automotive, dove il rischio di rallentare la transizione all’elettrico si fa concreto alla luce anche del ridotto reddito disponibile delle famiglie nei prossimi mesi e anni. Senza imponenti agevolazioni per sostenere la domanda dei consumatori e gli investimenti delle aziende, è quasi impossibile che l’industria automobilistica possa autonomamente riconvertirsi verso l’elettrico in una condizione di crisi profonda.
Si pensi che, intanto, in Cina hanno prorogato forti sovvenzioni statali per le auto “green”, proprio nel momento in cui il mercato è sostanzialmente immobile.
Per essere ancor più chiari: le famiglie faranno più difficoltà a sostituire la propria vecchia auto con una più ecosostenibile e performante? Si introducano nuovi e maggiori incentivi, anche fiscali, ad esempio sul modello dell’ecobonus per gli interventi edilizi.
A proposito, il settore delle costruzioni – che già in Italia ha sofferto la più lunga e pesante crisi economica nell’ultimo decennio, senza mai riuscire ad avvicinarsi neanche lontanamente ai livelli pre-2008 – è destinato a un secondo tracollo consecutivo, con gravissime ripercussioni occupazionali.
È qui che lo Stato può e deve intervenire, non solo varando piani infrastrutturali senza precedenti che mettano finalmente in sicurezza il Paese, ma anche rafforzando e semplificando gli incentivi per l’efficientamento energetico delle abitazioni, a partire dalla loro definitiva stabilizzazione (sembrerà incredibile, ma la più importante misura fiscale in senso green per l’edilizia privata è soggetta a rinnovi di anno in anno dal 2007!).
Insomma, che il momento sia storico ce ne siamo resi tutti conto, ormai. La crisi, in cui già ci troviamo, richiede risposte coraggiose e piene di visione. Non servono soltanto “soldi” (ovviamente ne servono, e anche tanti): occorre anche la capacità di indirizzarli avendo in mente un piano di medio-lungo periodo. Cioè un sistema economico e produttivo davvero nuovo, che sulla sostenibilità non può che fondarsi (altrimenti basterebbe il “laissez-faire”).
Serve cioè uno Stato forte, e un’Europa ancor più forte, che tengano fede agli impegni precedentemente assunti proprio nel momento più buio e difficile per la propria economia. Tutto quello che prima guardava al 2030 o al 2050, gli obiettivi comunitari, i Sustainable Development Goals dell’ONU, non deve venire riposto in un cassetto da riaprire soltanto a crisi superata.
Anzi, è proprio questo il momento di rilanciare la sfida, sfruttando il potenziale di due piani novecenteschi nel nome, ma con un aggettivo tutto del Duemila: verde.
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