«Gli spettatori? Spesso preferiscono i film brutti»
Il grande attore era gioviale, ingenuo, quasi infantile. Evitava chi lo lodava per le sue interpretazioni e sapeva essere autoironico Amava le belle donne e aveva una passione sconfinata per la cucina, tanto che la figlia lo ricorda «sempre con il mestolo in mano»
(di Cesare Lanza per LaVerità) Non l’ho conosciuto in modo profondo (vi racconterò come) e certo non posso dire di essere stato suo amico, anche per la notevole differenza di età (vent’anni). Però, anche sulla base di incontri estemporanei, certamente Ugo Tognazzi è stato uno dei personaggi più simpatici che abbia incontrato in vita mia. Schietto, spontaneo, anche ingenuo, comunque con senso dell’umorismo e battute immediate, istintive. Una volta mi ha detto: «Non serve a niente avere nostalgie e rimpianti. Ma se debbo ammettere un rammarico, è quello di non essere stato abbastanza vicino ai miei figli». E suo figlio Ricky ha confermato: «Per lui farci partecipare ai suoi film era un modo per dire a noi figli: non posso stare a casa, venite voi con me sul set. Nella scena finale di un film mi viene a prendere a scuola. Nella realtà l’avrà fatto due volte, quella è stata la terza…». Aveva momenti di riflessione umanissimi, quasi si metteva a nudo. Confidenze che sembravano arrivare con noncuranza, quasi per caso. Escludo che avesse voglia di lasciarsi andare, di abbandonarsi. Era uno stile, un suo modo di essere naturale. Mi disse sorridendo: «Non amo e non detesto i critici! Leggo, prendo atto. Sono stato considerato un attore promettente quando avevo quarantacinque. Al massimo dicevano che ero in forma, come si fa con le pagelle dei giocatori di calcio». Ero conquistato dai suoi frizzi e lazzi di umorismo. «Inflazione? Siamo poveri, ma con le tasche piene di denaro». E non ho mai saputo se una battuta fosse sua all’origine e poi si fosse diffusa, oppure se esisteva e l’avesse fatta sua, accomodandola un po’… «Cosa vuol dire essere ottimista? Andare in un ristorante, ordinare ostriche senza avere una lira, e sperare di pagare trovando una perla». Gli piacevano molto, è un eufemismo, le donne. Battute forti. Ecco quelle che, qui, posso riferire: «L’unico cibo afrodisiaco è la donna», «l’uomo mangia anche con gli occhi, specie se la cameriera è carina», «io amo le donne, non sarei capace di farne a meno. Ti danno entusiasmo e quando anche le lasci resta dentro di te una piccola parte di loro».
Ugo Tognazzi mi riporta, nei ricordi, alla stagione della mia temeraria giovinezza. Ero un pischello appena assunto al Corriere dello Sport, avevo poco più di vent’anni, già sposato e già padre, e nelle stesse condizioni, stessa età e stessa situazione familiare, era un mio caro amico, Franco Recanatesi, nel quotidiano sportivo romano. Ci sentivamo padroni del mondo, con immenso entusiasmo e scarso senso di responsabilità. In un torrido agosto a metà degli anni Sessanta, probabilmente con i soldi provvidenziali di una vincita a poker o ai cavalli (nella norma stentavamo ad arrivare alla fine del mese!), prendemmo in affitto nientemeno che una villetta a Torvajanica. Era attigua alla stupenda residenza di Tognazzi. Torvajanica all’epoca era una deliziosa località di mare e al centro dell’attenzione, in estate, c’era il viavai in casa Tognazzi – il bel mondo del cinema e dei giornalismo. In particolare, ad agosto, l’attrazione era rappresentata dal Ttt, sigla del «torneo di tennis Tognazzi». La villa era ospitale e aperta a tutti, non solo ad attori famosi e a grandi firme del giornalismo. Franco e io ci imbucavamo con ineguagliabile spudoratezza: rubavamo al volo qualche intervistina, accolti con simpatia dal grande attore padrone di casa e scroccavamo, in fondo questa è più o meno la verità, pranzi e cene. Solo al torneo di tennis non riuscivamo a farci ammettere, però assistevamo, con tanti altri entusiasti spettatori, a sfide incredibili, protagonisti Vittorio Gassman e Michele Placido piuttosto che Philippe Leroy o Anthony Quinn, Franco Interlenghi e Giuliano Gemma. Ugo aveva una passione fortissima per la cucina: ai fornelli lo aveva battezzato e indirizzato un ottimo cuoco, Raimondo Vianello, suo amico e partner leggendario in televisione. Vianello però era severo e perfido nei giudizi sulla qualità dell’ambizioso chef. A volte per scherzo, a volte seriamente (esagerando i toni e le parole). E Tognazzi si intristiva, come un bambino, ma non desisteva. La sua era una passione senza limiti. Aveva creato una giuria, chiamata dei «Dodici apostoli» (formata da star del cinema) e pretendeva una pagella finale. I voti consentiti: si passava da buono e sufficiente a «cagata» e «grandissima cagata». Tognazzi spiava di nascosto la votazione e una volta in cui molti per scherzo votarono «grandissima cagata» si appropriò delle schede: per darle a uno specialista di grafologia e individuare le firme dei critici più spietati. Nel torneo di tennis inventato da lui (un appuntamento imperdibile durato più di vent’anni!), Ugo aveva messo in palio, come primo premio, un ambitissimo scolapasta d’oro.
Per descriverlo ho saccheggiato le opinioni dei figli e di un grande regista, Dino Risi, che forse ha scolpito il ritratto più somigliante di Tognazzi: «Attore non attore, innamorato delle donne, della vita, della buona tavola. Fece un passo difficile, dal comico al drammatico. Molti ci provano, pochi ci riescono. A lui riuscì. Bello starci insieme, mai un momento di noia. Vero, sincero. Anche Gassman ne era contagiato: gli piaceva, era il contrario di lui. Ugo non sapeva quasi mai la parte. La inventava». E il ricordo del figlio Ricky? « Mio padre ci ha regalato la gioia per il lavoro; era come un sarto, e con divertimento, rabbia e passione, portava a casa il cinema. Inoltre aveva una passione infantile per la vita». Dino Risi stabilì anche un interessante confronto con Nino Manfredi. «Nino era un professore della scienza della risata. Tutto calcolato, ma in modo che sembrasse naturale. L’esatto contrario di Ugo, attore ruspante, se mai ce ne furono…» Ma Risi era forse quello che lo aveva capito meglio di tutti: «Ugo era considerato un grande amatore, e lo era. Come Walter Chiari, aveva la qualità che piace alle donne, le faceva ridere. E poi, come mi confidò, il segreto era non andare sul difficile, trascurare quelle troppo belle, contentarsi. La donna col difetto è la migliore, aggiunse: costa meno e rende di più». Dieci anni dopo le goliardate di Tor Vajanica, dirigevo a Milano il Corriere d’Informazione e invitai Ugo per una nostra rubrica: si trattava di rispondere alle domande dei lettori, al telefono. E prima e dopo io e lui ci intrattenemmo piacevolmente, a chiacchierare. Mi regalò battute e confidenze, da aggiungere al resoconto delle telefonate, che fu curato magistralmente da Edoardo Raspelli, un giornalista che avevo destinato a recensioni gastronomiche (ebbe un formidabile successo e Tognazzi, sempre generoso, gli diede consigli e indicazioni). Ugo, tra l’altro, mi disse: « Mi fido di tutti, non credo mai che qualcuno voglia avvicinarsi a me per ingannarmi. Qualche volta mi sbaglio, non lo nego». E di più: «Credo nell’amicizia nel modo più assoluto. L’amico è come il compagno di reggimento che in piena battaglia ti sta al fianco pronto a darti una mano. Mi chiedi cosa succede nel cinema, a Roma? L’amico non esiste. Non l’avrai mai al fianco. Se mai di fronte, o alle spalle, pronto a spararti addosso». Non gli piaceva autocelebrarsi per la qualità delle sue interpretazioni. Anzi, a un certo punto sospirò: «Mi deprime verificare che gli spettatori a volte preferiscono film brutti, con battute banali e volgari». E ancora: «Mi è piaciuto fare il regista: sono curioso. Ma non credo che diventerò mai un grande talento, si sarebbe capito subito, dal primo film. Mi manca la follia, il cervello un po’ pazzo, la fantasia indispensabile». Le riflessioni sulla mediocrità erano una sua fissazione: «Sono sensibile alla mediocrità degli altri, mi è molto servito quando ero attore comico di rivista». Mi disse ancora: «Non so cosa voglia dire il successo, e se l’ho avuto non me ne rendo conto. Il tempo vola, ti spinge a pensare ad altro, in fretta».
Chi era, Ugo? Forse un eterno bambino. Proprio come una volta suo figlio Ricky ha detto «Non reagiva alla parola “papà”, perché lui non era un “padre”, era molto più “figlio” che “padre” dei suoi figli… E fondamentalmente la vera chiave di Ugo è stata proprio questa: che è sempre rimasto un bambino, ha saputo mantenere intatta la sua innocenza e la sua ingenuità, rigettando tutte quelle sovrastrutture che un uomo mette sopra la propria coscienza e che gli impediscono di mostrare il bambino che è in lui. Credo proprio che sia il vero segreto di mio padre, l’essere stato sempre un bambino, aver mantenuto la purezza, l’onestà, il piacere del gioco di un bimbo: la cucina era un gioco, le donne erano un gioco, tutto era un gioco. Il suo lavoro in primis». Un capitolo particolare dev’essere dedicato al suo amore per il cibo. Testimone autorevole Alberto Sordi, che ha detto: «Se si parlava di un suo film non aveva mai problemi a fare autocritica, ma guai a toccargli il cibo che preparava per gli ospiti, guai a fargli neanche per scherzo il minimo appunto, gli sembrava un torto imperdonabile… ». Maria Sole Tognazzi: «Un giorno arrivò in famiglia un nostro fratello norvegese di cui non sapevamo nulla». Ed è ancor più straordinaria nel raccontare: «Il cibo nel rapporto con mio padre ha rappresentato un incubo. La mia vita con lui è stata dentro una cucina. Potete immaginare cosa significa crescere con un padre che invece della pasta al pomodoro vi fa la balena alla pizzaiola, il maiale tonné o i coglioni di toro panati. Non si cresce molto sani. Per lui il cibo era un modo per continuare a comunicare con gli altri e non necessariamente solo con noi. Aveva una passione vera. Per lui fare il cuoco era come fare l’attore. La mattina mi svegliavo alle 7-30: c’era già il soffritto e io andavo a scuola vomitando. Più che il ricordo di un padre attore, nei miei diciotto anni di vita con lui ho il ricordo di un padre con un mestolo in mano. Lui inseriva tutto questo nei suoi film: La Grande abbuffata è nata un po’ nelle nostre cucine».