«C’è stato un ribaltamento del concetto domanda e offerta di lavoro. Ora le aziende devono imparare a essere attrattive e i lavoratori devono raccontarsi». Parola di LinkedIn. O meglio, di Marcello Albergoni «country manager», cioè il capo italiano del social media del lavoro che – tra persone e aziende – conta circa 19 milioni di iscritti in Italia e attorno al miliardo, in tutto il mondo. Il suo osservatorio offre una visione a 360 gradi. Non soltanto in termini virtuali, poiché la sede di Linkedin, al diciannovesimo piano in Porta Garibaldi, è inondato dalla luce che entra dalle vetrate affacciate sui quattro punti cardinali. Ci lavorano una quarantina di persone, ma se non fosse per qualche postazione classica, cioè scrivanie e computer, non sembrerebbe neanche un ufficio, ma piuttosto un luogo di intrattenimento: strumenti musicali, biliardino e ping pong, biciclette a disposizione di chi le vuole usare, spogliatoio con docce, divani di ogni forma, un’ampia «cucina» che sembra un locale strappato alla movida della zona Garibaldi, e poi salette insonorizzate per concentrarsi, fare riunioni o rilassarsi, anche con giradischi e vino. Eppure, qui il lavoro è il core business, la stessa ragion d’essere di tutto questo bendidio. E vale la pena intercettare lo sguardo di chi guida l’enorme piattaforma di incontri tra domanda e offerta.
Albergoni, qual è lo scenario del lavoro, visto da qui?
«Si muove, anche se lo scorso anno si è un po’ raffreddato, con un calo del 18,9% nelle assunzioni rispetto al 2022, ma le aziende continuano ad aver necessità di portare a bordo persone».
E allora come mai c’è stato quel calo?
«Innanzitutto, i numeri erano ancora esposti ai rimbalzi del post-pandemia, con aziende che avevano evidentemente imbarcato troppe persone, mentre altre che erano alla ricerca hanno dovuto fare i conti con una propria incapacità di incontrare le figure necessarie».
Eccoci al punto: come funziona questo incontro, che negli ultimi tempi sembra diventato più complicato, nonostante le piattaforme e i database.
«Potremmo dire che si tratta di un racconto reciproco, ciascuno deve avere il gusto di portare alla luce le sue bellezze. Chi cerca un lavoro deve dire chi è, parlare di sé, farsi conoscere. Più che il titolo di studio o di lavoro, deve mettere in evidenza le sue competenze, le tante cose che sa fare e che conosce, anche perché sono in rapida evoluzione e le aziende cercano proprio quelle, non il job title. E da parte loro, le impese devono risultare attrattive, pulite, consapevoli del ribaltamento del concetto di “offerta di lavoro”. Questo, almeno, è ciò che spieghiamo ai nostri clienti: dall’amministratore delegato in giù, bisogna creare un ambiente che piaccia. Anche perché i dati della nostra ultima ricerca dicono che 6 lavoratori su 10, cioè il 61 per cento stanno valutando nuove opportunità».
Perché?
«La principale motivazione è sicuramente la possibilità di un aumento di retribuzione, come dichiarato dal 34 per cento degli intervistati, ma subito dopo, al 23 per cento, c’è la ricerca di una migliore work-life balance, cioè di una qualità delle giornate in equilibrio tra vita e lavoro. E sono soprattutto le donne a spingere questa dinamica».
Queste sono tendenze nazionali, ma un’area come quella di Milano, dove peraltro si concentra la maggior parte dei vostri iscritti, come si comporta?
«Milano anticipa e mostra con maggiore evidenza le dinamiche che poi si manifestano in tutto il Paese, e non solo. Quindi questo scenario è molto milanese».
Torniamo ai lavoratori che vogliono proporsi al mercato, per esempio un cinquantenne che si trova costretto a rimettersi in gioco, quando credeva di non doverlo più fare. Consigli?
«Devi esserci e raccontarti. Cioè avere un profilo che davvero parli di te, che riveli le tante competenze che hai acquisito negli anni, e non soltanto quelle legate al lavoro, ma anche le passioni, il volontariato, gli hobby, tutto ciò che dica chi sei veramente al di là del fatto che sai leggere e riempire un foglio Excel. E poi seguire le aziende che ti interessano, che ti ispirano, possibilmente partecipare alle discussioni, alle riflessioni quotidiane, farsi sentire. Ovviamente questo vale per il versante digitale, poi possibilmente bisogna cogliere le occasioni di relazioni fisiche, il classico networking. Ma queste cose non riguardano soltanto i cinquantenni, sono valide a qualsiasi età».
Ma ci sono competenze più richieste di altre.
«I dieci lavoratori emergenti, cioè con la crescita maggiore negli ultimi cinque anni, sono: addetto allo sviluppo commerciale, ingegnere dell’intelligenza artificiale, analista Soc, sustainability specialist, cloud engineer, data engineer, responsabile acquisti, cyber security engineer, consulente cloud e fiscalista Ma tutto è in continuo mutamento. E lo confermano gli intervistati della nostra ricerca: il 74 per cento considera necessario il re-skilling, e la percentuale sale all’80 tra i millenial, e poi l’intelligenza artificiale avrà un impatto enorme sull’attuale panorama, sarà una transizione».
Molte aziende, però, faticano a trovare operai, lavoratori manuali e spingono i giovani verso percorsi come gli Its. Linkedin come interagisce con il segmento dei «colletti blu»?
«In effetti si tratta di un mondo meno presente, ma ci stiamo arrivando. In origine questa era una piattaforma per “consulentoni” e sviluppatori, poi si è allargata ed è arrivata a coinvolgere anche il mondo del commercio e della grande distribuzione, con ricerche di addetti ai magazzini o alle casse. Ora cerchiamo di convincere le aziende, le università e le scuole a mettersi in mostra, per completare il panorama del lavoro».
E poi ci sono le persone che lasciano il lavoro, la cosiddetta «Great resignation». Pochi giorni fa, una ragazza di 27 anni ha raccontato al Corriere.it di aver lasciato il suo lavoro senza averne un altro perché si sentiva sola in una situazione di non governo da parte dell’azienda. È un atteggiamento ricorrente?
«In Italia, almeno nei numeri, il fenomeno è molto meno evidente rispetto agli Stati Uniti. Diciamo, però, che si è posto con evidenza un tema per le aziende: come non perdere lavoratori faticosamente trovati e poi formati. Perché è vero che possa crearsi smarrimento o disorientamento una volta calati all’interno di organizzazioni grandi, complesse ma percepite lontane. Noi cerchiamo di parlare con i manager anche di questo, del ruolo della leadership a tutti i livelli, perché non è affatto vero che un’azienda sia come una famiglia, e proprio per questo bisogna stare molto attenti per poter trattenere le persone a bordo».
Giampiero Rossi, corriere.it