Gli anticorpi primitivi, ovvero le molecole dell’immunità innata, che sono la prima linea di difesa del nostro organismo, saranno sempre più utili per la diagnosi e il trattamento di infezioni, malattie autoimmuni e neurodegenerative. Queste, in estrema sintesi, le conclusioni di un’ampia review pubblicata sul New England Journal of Medicine da Alberto Mantovani, direttore scientifico di Humanitas e professore emerito di Humanitas University, e da Cecilia Garlanda, responsabile del laboratorio di Immunopatologia Sperimentale di Humanitas e professore di Humanitas University.Le prime molecole dell’immunità innata furono isolate quasi un secolo fa e oggi sono usate in clinica come indicatori diagnostici e prognostici di infiammazione. “Abbiamo ritenuto importante – spiega Mantovani – mettere a fattor comune tutte le conoscenze sulle molecole della nostra prima linea di difesa a beneficio dei medici e delle future generazioni di clinici, che si trovano ad utilizzarle per diagnosi e terapie, a volte senza aver piena percezione del loro potenziale. Le molecole dell’immunità innata sono infatti protagoniste di alcuni importanti azioni di difesa quando l’organismo è sotto attacco infiammatorio, come avviene nella sepsi o in caso di grandi traumi, ma anche di malattie neurodegenerative o autoimmuni. Usando un’immagine tratta dal contesto bellico, potremmo dire che questa classe di molecole ‘sottrae materiale al nemico’ per indirizzare gli sforzi dell’organismo verso la produzione di mezzi di difesa pesanti e la ricostruzione di quanto è ‘sotto le macerie’ dell’infiammazione. Azioni che lasciano traccia e, se ben misurate, possono guidare l’azione dei medici”. Nel paper gli scienziati sottolineano il potenziale terapeutico di questi anticorpi “antichi”. “Le molecole dell’immunità innata – spiega Garlanda – sono uno strumento di diagnosi clinica ormai consolidato: il loro livello nel sangue, come anche il Covid-19 ha dimostrato, permette di misurare lo stato infiammatorio e ha grande valore sia diagnostico sia prognostico per molte malattie infettive, infiammatorie o autoimmuni. I dati delle ricerche di questi anni ci dicono però che queste molecole possono fare molto di più: non solo come marcatori prognostici di precisione, ma come target terapeutici ancora in larga parte poco esplorati”. All’inizio del 2022, il gruppo di ricercatori Humanitas guidati da Cecilia Garlanda e Alberto Mantovani, in collaborazione con il team di Elisa Vicenzi dell’IRCCS Ospedale San Raffaele, ha dimostrato la capacità di una di queste molecole (MBL) di legarsi alla proteina Spike di SARS-CoV-2 in tutte le sue varianti e di bloccare il virus. Non solo: i pazienti che hanno alcune versioni mutate di MBL avrebbero un maggior rischio di sviluppare le forme gravi di Covid-19. “Se è vero che l’azione dell’immunità innata è meno specifica di quella messa in campo dall’immunità adattiva – la seconda linea di difesa dell’organismo, costruita su misura per la minaccia da affrontare e di cui fanno parte gli anticorpi – oggi sappiamo che le molecole solubili dell’immunità innata agiscono come dei veri e propri “anticorpi primitivi”, concludono i due scienziati. Non a caso diversi studi clinici preliminari stanno testando l’efficacia di queste molecole come potenziali terapie di supporto per malattie infettive, infiammatorie, autoimmuni e neurodegenerative.