«Generazione X» senza futuro dal punto di vista previdenziale. Questo esercito di 8,7 milioni di cittadini nati tra il 1965 e 1980, infatti, è destinato a subire in pieno le conseguenze negative delle grandi svolte economico-sociali degli anni ’90: flessibilità del lavoro (con i contratti che diventano meno rigidi in termini di durata) e riforma pensionistica (con il passaggio al calcolo contributivo). E con nessun rimedio, al momento. La sorpresa li attende al compimento dei 65 anni d’età, nel periodo dal 2030 al 2045, a conclusione di una vita attiva di circa mezzo secolo: si ritroveranno con appena 30 anni di lavoro utili ai fini della pensione e con 15 anni di buchi contributivi, cioè persi, sprecati e per sempre. A sostenerlo è l’Inps nel XXI Rapporto annuale. E non è tutto. Infatti, l’Inps sottolinea anche una differenza all’interno della stessa coorte della «generazione X»: chi è nato nel 1980 deve lavorare tre anni in più per uguagliare l’importo della pensione di quella di un nato nel 1965; e una donna nata nel 1980 deve lavorare cinque anni e 8 mesi in più per uguagliare l’importo della pensione di quella di un uomo nato nel 1965. Rimedi? Per l’Inps ci sarebbe la carta del «salario minimo» a 9 euro: su 30 anni di lavoro garantirebbe una pensione di 750 euro mensili. Ma è già tardi come rimedio alla «generazione X», ormai a metà del cammino della vita attiva.
«Generazione X». L’analisi dell’Inps valuta la copertura assicurativa della «generazione X», nonché l’evoluzione per effetto delle modifiche alla stabilità lavorativa e alle modifiche legislative. Questi soggetti, nati tra il 1965 e il 1980, sono i primi ad aver vissuto in pieno le conseguenze delle riforme degli anni ’90, relative all’introduzione della flessibilità del lavoro e delle nuove regole di calcolo delle pensioni. L’Inps prende in esame una platea di soggetti formata da tutti coloro che hanno versato almeno un contributo nella vita lavorativa al 1° gennaio 2020. Nel dettaglio, fanno parte gli iscritti all’Inps che hanno iniziato a lavorare tra 16 e 25 anni d’età. Gli «Xers» analizzati sono circa 8,7 mln di lavoratori: 543.000 in media per anno di nascita. Il gruppo più corposo è quello del 1968; i nati nel 1980 i meno numerosi. Le donne il 45%. La gestione pensionistica più affollata è quella dei dipendenti privati; poi gli autonomi (compresi parasubordinati) e i dipendenti pubblici.
Età d’ingresso nel mercato del lavoro. Primo punto di osservazione è l’età d’ingresso nel mercato del lavoro, uno dei fattori che più incide sulla copertura pensionistica. L’età di prima lavoro cresce con il crescere dell’anno di nascita: i più vecchi (nati 1965-1970) hanno fatto in anticipo la prima esperienza di lavoro rispetto ai più giovani.
L’età del primo contributo sale di circa un anno per i nati nel 1977 rispetto ai nati nel 1965, passando da 19,7 a 20,7; poi si riabbassa tra i più giovani (20,4). L’Inps attribuisce il calo per i nati nel 1978-1980 al calo della disoccupazione giovanile (età 15-24) degli anni 2000, anno in cui iniziano a lavorare i più giovani per effetto della crescente flessibilità introdotta dal 1997. Il 1997, infatti, è l’anno del c.d. «Pacchetto Treu» che, per la prima volta, introduce forme di lavoro flessibili, in particolare con il lavoro interinale e con il contratto di collaborazione coordinata e continuativa.
Dopo i primi 15 anni di lavoro. La distribuzione dei dati relativi alla copertura previdenziale nei primi 15 anni di lavoro (cioè gli anni con contributi versati) si presenta omogenea con un calo di 3,2 punti percentuali per i più giovani rispetto ai più anziani. Il calo colpisce di più gli ultimi nati che sono entrati nel mondo del lavoro attorno al 2000, in genere con contratti di lavoro atipico, da parasubordinati, e non come dipendenti.
Nel complesso, per la classe 1965-1971 che ha iniziato a versare i contributi negli anni ’80, epoca in cui la disoccupazione giovanile era oltre il 25%, si registra una copertura del 69% corrispondente a una vita media attiva totale di 10 anni e 4 mesi (sui 15 anni considerati). Ma ci sono differenze tra generi: per le donne è al 66%, corrispondente a 9 anni e 11 mesi di vita attiva; per gli uomini è al 71%, con una vita attiva di 8 mesi in più. Chi ha iniziato a versare contributi negli anni ’90, cioè la classe 1971-1976, presenta una stabilità al 69%, corrispondente a una vita attiva di 10 anni e 3 mesi, cioè un mese in meno della classe precedente. I nati nel 1977-1980, oggi quarantenni, registrano un brusco calo nei livelli di copertura e sono, quindi, da ritenere la fascia più critica. Morale: l’introduzione dei contratti atipici negli anni 2000, da un lato ha comportato minore disoccupazione; dall’altro, però, ha favorito una maggiore frammentazione della vita lavorativa cui va ricondotto l’abbassamento della copertura ai fini pensionistici. Nei primi 15 anni di vita lavorativa i più giovani registrano 5 mesi di copertura in meno rispetto ai più vecchi. I cinque anni andranno «recuperati» lavorando di più, cioè con un aumento dei requisiti per la pensione. Nel complesso, al raggiungimento dei 65 anni d’età, la vita attiva sarà di circa 30 anni con 15 anni di buchi contributivi.
Soluzioni e rimedi. L’Inps prova a simulare i benefici che potrebbero arrivare dall’adozione per legge di un salario minimo a 9 euro all’ora. Il risultato è buono: percepire 9 euro per tutta la vita attiva assicura una pensione di circa 750 euro mensili (a prezzi correnti), superiore al minimo Inps pari oggi a 524 euro al mese. La soluzione è un’alternativa al ricorso a prestazioni assistenziali, che in qualche misura dovranno integrare la pensione della «generazione X».
Daniele Cirioli, ItaliaOggi Sette