L’ Europa virtuosa, quella che lavora per tagliare le emissioni, rischia di trasformarsi in una «grande macchina senza benzina». In balia dei grandi produttori, con industrie che «consumano molta energia» ma non ne hanno a sufficienza. Mentre i signori delle materie prime aprono e chiudono i rubinetti e l’America di Joe Biden combatte per difendere la sua autosufficienza, il Vecchio Continente è alle prese con una transizione dolorosissima. «L’ansia ambientale è sacrosanta» dice Claudio Descalzi, «ma si è modificata l’offerta senza curarsi della domanda». E gli squilibri, a livello globale, rischiano di aumentare. L’amministratore delegato dell’Eni parla all’Italian Tech Week di Torino, intervistato dal direttore della Stampa Massimo Giannini.
La svolta green, dice, non sarà un pranzo di gala. E il Vecchio Continente, che combatte tra i giganti, potrebbe pagare il prezzo più alto. Descalzi, nelle ultime settimane c’è stata una serie di allarmi rispetto a quello che pareva un destino ineluttabile, ma anche felice: la transizione ecologica.
Prima Draghi e Cingolani, poi l’aumento delle bollette, ci hanno suonatola sveglia. Che cosa sta succedendo?
«La prima preoccupazione che bisogna tenere in mente riguarda l’ambiente. Il sistema energetico, così come quello sociale, è diversificato. Dobbiamo muoverci con l’obiettivo di far avanzare tutti i punti deboli della nostra società .Le transizioni sono già complesse e dolorose a livello personale, quando dall’individuo passiamo ad un sistema complesso allora diventa indispensabile studiarle con strumenti nuovi, innovativi».
Sì, ma costano.
«È così. Il gas è poco e costa tanto, il carbone sta vivendo una seconda-terza-quarta-quinta giovinezza perché è l’elemento più utilizzato nell’energia elettrica, al 35%. E produce il 72% delle emissioni. Con questa ansia del problema ambientale, che è sacrosanta, si è modificata l’offerta senza curare la diversificazione della domanda. Quindi posso aumentare le rinnovabili, è corretto, ma devo riuscire a incrociare la domanda. Perché se rimane la stessa e non la modifico a un certo punto non ho più il gas, perché ho cambiato solo l’offerta».
L’Europa rischia più degli altri?
«In Europa siamo molto virtuosi ma non c’è un equilibrio. Le nostre industrie non solo non hanno energia, ma devono importarla».
Una delle proposte è arrivata da Draghi: l’Ue, ha detto, deve muoversi compatta, recuperando un ruolo da grande centrale di acquisto e riproponendo lo schema che ha già funzionato per i vaccini…
«L’Unione europea può certamente giocare un ruolo importante per assicurare la sicurezza energetica del continente. Siamo un grandissimo mercato che però deve importare gran parte dell’energia che consuma. Un ruolo proattivo dell’Europa per la sicurezza di approvvigionamento garantirebbe stabilità e omogeneità di prezzi e volumi riducendo l’impatto di aumenti repentini come quelli di questi giorni».
Lo stesso premier ha detto che, nel contrastare i cambiamenti climatici, non c’è più tempo. Siamo in ritardo?
«Il ritardo è a livello mondiale. L’Europa produce l’8% delle emissioni e consuma molta energia, quindi è molto efficiente. Ma certamente tutte queste leggi ci appesantiscono. La burocrazia se sei in ritardo deve essere velocissima e questo attira investimenti e fiducia. La parte amministrativa e burocratica deve facilitare investimenti italiani ed esteri. E questo non è semplicissimo dati i costi che abbiamo per fare andare avanti le industrie».
Il governo ha varato un provvedimento per calmierare il prezzo delle bollette. È la strada giusta? Bastano questi tamponi oppure serve qualcosa di diverso?
«Ha già detto lei che sono tamponi. Il governo è stato bravo, rapidissimo a muoversi con una misura socialmente corretta che riduce la pressione. È giusto curare gli effetti, ma con la stessa velocità dobbiamo agire sulle cause perché la situazione è strutturalmente debole. Ci manca il gas, nella parte Upstream si investiva circa 800 miliardi l’anno, da2014 sono scesi a 400 e adesso a 300 miliardi l’anno. Ci sono pochi investimenti sulla tecnologia tradizionale e quelli nelle rinnovabili stanno avendo uno showdown perché è difficile la burocrazia è un freno. E comunque l’utilizzo di queste energie non risolverebbe il problema perché l’utilizzo, in questo momento, è molto basso».
Quindi sul medio-termine dobbiamo aspettarci una forte volatilità dei prezzi?
«Sulla questione dei prezzi, il gas sta anticipando quello che potrà accadere anche sul petrolio a livello mondiale. È una cosa strutturale. Per sei-sette anni si è investito nelle fonti tradizionali, il 40-60% di quello che si investiva prima per dare energia al mondo. Bisogna invece aumentare gli investimenti nella decarbonizzazione di queste fonti,nelle rinnovabili e nelle nuove tecnologie, perché il vero salto si avrà quando ci saranno delle tecnologie che permetteranno di cambiare la sorgente di energia quasi a parità di infrastrutture. Ma è un processo lungo, difficile».
È un tema carsico. Il nucleare è tornato nel dibattito, lanciato dal ministro Cingolani. Lei che cosa pensa? È ancora una fonte possibile?
«A livello teorico c’è bisogno di un grande spettro di soluzioni, anche di un nucleare diverso, si parla di quello di quarta generazione ma non l’abbiamo ancora. È difficile pensare di costruire una centrale nucleare in un Paese in cui facciamo fatica a installare pannelli solari. La tecnologia è ok, ma la fattibilità è piuttosto complessa, visto che l’Italia negli Anni Ottanta si è espressa con
il referendum. Per fare una centrale ci vogliono anni, per avere la quarta generazione ci vuole tempo. Noi lavoriamo non sulla fissione ma sulla fusione e questo è sicuramente un punto di partenza importante perché la sorgente diventa l’acqua».
Come già successo tra gli Anni 60 e gli Anni 90 la geopolitica planetaria si sta ridisegnando attorno alla ristrutturazione dell’industria energetica, con la Cina proiettata verso l’egemonia. Il Dragone sforna il 70% delle terre rare, il Congo produce più dell’80% del cobalto mondiale. C’è il rischio di tensioni o nuovi conflitti?
«La transizione energetica non elimina le tensioni geopolitiche, ne cambia la tipologia e la mappa. Avremo ad esempio meno rischi sulle pipeline ma nuovi rischi di hackeraggio delle reti elettriche. Invece per quanto sappiamo oggi, minerali critici e terre rare sono concentrate in pochi Paesi ma, ancor più rilevante, il processing e la manifattura dei prodotti finali di tutti questi minerali, ovunque si estraggano, avviene per oltre l’85% in Cina. Inoltre, oggi in pochi guardano alle condizioni di lavoro dell’industria estrattiva in certi Paesi e alla tutela dei lavoratori. Insomma, la competizione tecnologica sulla transizione è già in corso. Le filiere produttive registrano per ora un importante vantaggio cinese su fotovoltaico, eolico e batterie. Conquistare una leadership in quei campi vuol dire poter condizionare le scelte degli altri, perciò, il rischio di tensioni, queste ed altre, esiste. Una transizione giusta richiederà molto lavoro da parte del la politica per favorire la cooperazione fra Paesi».
Draghi, nel discorso con cui ha chiesto la fiducia al Senato, ha detto: “Vogliamo lasciare un buon pianeta, non solo una buona moneta”. Ce la faremo?
«Io sono sicuro di sì perché poi l’uomo, quando è messo alle strette, tira fuori la passione. Bisogna fare ogni cosa con la massima partecipazione, non solo per il futuro ma anche per il presente. Però dobbiamo uscire dal torpore, trovando nuove motivazioni».
Giuseppe Bottero, La Stampa