Colpito da un incredibile numero di lutti giovanili, il poeta abusò della bottiglia. E non si liberò mai dell’ossessione per Ida e Mariù
(di Cesare Lanza per LaVerità) Giovanni Pascoli (1855, San Mauro di Romagna -1912, Bologna) è tuttora uno dei poeti italiani più amati e celebrati non solo nei licei, ma anche al di fuori delle scuole. Dolce, tenero, decadente e nostalgico. Tuttavia la sua vita privata fu tutt’altro che ammirevole ed esemplare. Si sbronzava con piacere e frequenza, insegnante di letteratura all’università di Bologna, si presentava alle lezioni con gli studenti in stato di ebbrezza; era insomma considerato un ubriacone, a volte addirittura un alcolista inguaribile: morì di cirrosi epatica, problema frequente per chi alza il gomito senza freni. Amante degli alcolici, e allora? Così protestano i suoi simpatizzanti e anche alcuni critici benevoli. La letteratura, sostengono con ampie prove, è piena di alcolizzati o quasi, scrittori e poeti: da Edgar Allan Poe ad Arthur Rimbaud, da Baudelaire a Paul Verlaine, Francis Scott Fitzgerald, James Joyce, Ernest Hemingway, William Faulkner, Truman Capote… e 100 altri. Consumava anche, Pascoli, in modo esagerato un oppiaceo, il laudano (quello che condusse alla pazzia Anna Karenina) e forse altri calmanti contenenti droghe. Una grande attenuante: il dolore per i lutti strazianti subiti da adolescente. Aveva appena 12 anni quando restò orfano del padre (amministratore fidato di casa Torlonia), ucciso da ignoti. E poco tempo dopo perse anche una sorella colpita dal tifo e anche la mamma, stroncata, si dice, dal crepacuore. Altri due gravissimi lutti negli anni dell’università: morirono il fratello maggiore Giacomo (che lo aveva spinto, apprezzandolo, a studiare lettere e alla poesia) e il fratellino minore Luigi. Pascoli certamente fu un uomo mite e ingenuo, al punto che alcuni lo definirono «un idiota di talento»: un amico lo raggirò chiedendogli un prestito, mai restituito, e lo lasciò in una condizione di indigenza. Praticamente restò nella necessità di chiedere continuamente prestiti e addirittura l’elemosina. Arrivò a umiliarsi, implorando un amico, cameriere in un ristorante, di passargli gli avanzi dei tavoli come cibo per la sopravvivenza. Giosuè Carducci, che lo stimava, gli procurò un incarico di insegnante in un liceo, ma Giovannino lo perse presto e si ridusse alla fame perché bigiava le lezioni e passava le giornate a letto (drogato?) e ubriaco, smemorato verso gli impegni e il dovere assunto. Aderì per idealismo al partito socialista e finì in carcere per quattro mesi, innocente, dopo una manifestazione di anarchici, che inneggiavano all’attentatore di re Umberto I. Inutilmente Carducci tentò di difenderlo, sostenendo che non aveva «capacità a delinquere». Per ben nove anni, dopo la prigione, visse in modo mediocre, con occasionali incarichi di insegnante: attraversò l’Italia da Massa a Matera e si riunì a Ida e Mariù, le sorelle sopravvissute alla strage dei lutti. Fu inseguito da indiscrezioni e voci sui rapporti incestuosi con tutte e due. Se fossero cronache veritiere o malizie pettegole ed esagerate forse non si saprà mai.
Di certo ci fu amore in quel triangolo, quando Giovanni e Ida, insieme con la piccola Mariù, si riunirono a Massa. Il poeta, sempre più conosciuto e apprezzato, adorava l’istituzione-famiglia e il suo valore. Pascoli fu certamente un personaggio bramoso di affetto e tenerezza. Da bambino (quarto di dieci figli) era stato morbosamente legato, se non inconsciamente innamorato, di sua madre, Caterina: per ore restava col capo appoggiato sulle sue gambe e la seguiva ossessivamente in tutta la casa. Ai biografi non sfuggì che la mamma, avvinta o estenuata, decise di approntargli un letto nella camera matrimoniale, in modo che le restasse vicino anche nelle ore notturne. Quanto al «triangolo» con le sorelle, alla fine Ida decise di sposarsi, probabilmente (si dice) indotta da Mariù, che voleva dedicarsi esclusivamente, da sola, all’amato fratello. Giovanni però si sentì tradito, precipitò in una pericolosa depressione, bevendo più che mai e cercando conforto e sostegno nel laudano. A I segreti di casa Pascoli è anche dedicato un libro del celebre Vittorino Andreoli. Lo psichiatra è lo studioso che più esplicitamente ha analizzato le vicende incestuose, tuttavia anche lui senza documenti né prove definitive. «Giovanni Pascoli (su questo Andreoli è molto chiaro) non può essere ascritto a una vera e propria patologia psichica, ma semmai ad una personalità con alcune caratteristiche infantili e con un Edipo non risolto, una forte fragilità emotiva, e da ultimo una dipendenza dall’alcool che lo porterà alla morte. Di chi invece lo psichiatra dà una diagnosi (di isteria) è Mariù, la sorella minore che diventerà deus ex machina della vita del poeta e dell’altra sorella, Ida, di due anni più grande di lei e di otto minore del poeta». Si tratta di un libro prezioso, se si desidera avvicinarsi alla vita di Pascoli realisticamente, senza retorica. Andreoli ricostruisce con cura la storia familiare a partire dalla tragica notte del 10 agosto 1867, quando il padre Ruggero viene assassinato, fino al momento in cui Giovanni, ormai adulto e docente in via di affermazione professionale, riesce ad avere con sé a Massa le due sorelle minori togliendole dal collegio dove erano cresciute. A questo punto inizia il dramma: la forte attrazione, il legame morboso e intenso che nasce tra il poeta e le due sorelle ma in particolare con Ida, che viene rappresentata nella sua bellezza e carnalità dal poeta stesso in alcuni schizzi che il libro riporta come documenti di particolare interesse.
I documenti qui riportati esprimono un sentimento morboso e giustificano l’ipotesi di Andreoli: un legame d’amore e attrazione fisica tra Giovanni e Ida, un rapporto di carattere nevrotico con Maria; l’equilibrio tra i tre elementi di questa nuova famiglia sarebbe in sostanza una incarnazione del celebre amore edipico. Da un lato, infatti, c’è la proiezione della figura della madre su Ida; dall’altra, l’immedesimazione dell’autore con il padre scomparso: solo in questo modo il genitore prematuramente perduto sembra infatti rivivere in lui, e nel suo prendersi cura specialmente della piccola Maria. La sorella minore tuttavia rompe questo equilibrio malato perché si dà da fare per «sistemare» Ida, dedicando più energie a questa preoccupazione che non al suo stesso matrimonio, o quello di Giovanni. È un amore mortifero? Inequivocabilmente sì, secondo lo psichiatra. Le lettere del 1895 mostrano un poeta in bilico tra i sentimenti per l’una e per l’altra sorella, che appaiono in opposizione: due legami esclusivi, violenti, tormentati da gelosie che di solito non trovano spazio in una famiglia d’origine, ma somigliano a quelle vissute in un amore di coppia. La devozione di Maria al fratello è in realtà un amore «mortifero», Andreoli dimostra come le nozze combinate di Ida nel 1895 diventino per Giovanni l’inizio della fine: nonostante la fulgida carriera e i successi letterari in aumento, comincerà a bere nutrendo così la cirrosi epatica che lo porterà a morte, e trascorrerà il resto della sua vita (finita nel 1912) vivendo affettivamente una situazione di crescente dolore, isolamento, chiusura nell’ambito soffocante della presenza di Maria, sconforto crescente testimoniato dalle numerose epistole ad amici e alla stessa Ida.
Di altri eventi della vita sentimentale del Pascoli si registra soltanto un tentativo di sposare la cugina Imelde Morri, tristemente naufragato al secondo incontro tra i due, pare anche qui per l’intervento malevolo di Maria. Certo la parte più «scabrosa» dell’ipotesi di Andreoli, quella dell’incesto con Ida, non è suffragata da prove oggettive e sicuramente una simile ricostruzione dei fatti nulla aggiunge alla bellezza delle poesie pascoliane e ai significati individuati dalla critica letteraria. Andreoli è però psichiatra, non critico né letterato né storico: la descrizione che egli fa delle sue visite nell’ultima casa di Pascoli, in particolare alla camera della religiosissima Maria e alla cappella dove è conservata la tomba del poeta, sebbene non oggettiva è affascinante, e forse portatrice di verità indimostrabili ma intimamente indiscutibili: perturbante il particolare delle fessure nel sarcofago, talmente sottili che solo Maria, di corporatura minuta quasi come una bimba, poteva continuare a toccare la salma di quel fratello così amato e idealizzato che non doveva amare altri che lei. Giovanni soffriva di un problema a un dito del piede, che a volte lo costringeva a zoppicare. Una volta si fidanzò e Mariù, irritata e gelosa, gli riferì malignamente che la sua bella, Imelde Morri, aveva detto che si vergognava di farsi vedere in giro con uno storpio, uno zoppo. Una pura invenzione, una cattiveria, ma bastò a far sì che il poeta, ferito, rompesse il legame sentimentale. Rosita Boschetti, direttrice del museo di San Mauro dedicato al poeta, e apprezzatissima sua biografa, nega che Giovanni fosse un uomo poco virile e non interessato alle femmine, anzi rivela e dimostra (da una lettera a un fratello) che frequentava perfino le case di tolleranza. Pascoli ebbe amore per molte donne, a volte ricambiato e molte altre volte no. La prima fiamma del cuore fu per Erminia Tognacci, che sentiva cantare di fronte alla sua finestra. Un altro lutto, un’altra tragedia: la ragazza morì a 17 anni in un incidente stradale, col suo calesse. All’università Giovanni fu dapprima grande amico di una compagna di studi, Giulia Cavallari, e poi legato con un vero flirt a Emma Testoni, anch’essa aspirante poetessa: la giovane gli dedicò una poesia, intitolata Due nubi (fuor di metafora, loro due). Desidero infine ricordare Pascoli con i primi versi di una poesia (dedicata al padre ucciso misteriosamente e al dolore della madre) che amo molto, tra le sue più celebri… «O cavallina, cavallina storna,/che portavi colui che non ritorna;/tu capivi il suo cenno ed il suo detto !/Egli ha lasciato un figlio giovinetto;/il primo d’otto tra miei figli e figlie;/e la sua mano non toccò mai briglie…».