De Sica, maestro di cinema e d’amore che con l’azzardo placava i tormenti

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Seduttore irresistibile e giocatore malinconico, sembrava fosse predestinato a perdere. Cosa che faceva sempre con il sorriso


Di Cesare Lanza, per La Verità

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Un personaggio leggendario. Non solo per il cinema italiano, ma a livello internazionale , con meriti e successi indiscutibili:
ha vinto quattro Oscar! Sciuscià, Ladri di Biciclette, Ieri oggi domani e II Giardino dei Finzi Contini. Vittorio De Sica però è entrato anche nelle leggende del gioco d’azzardo e di questo, oggi, soprattutto desidero occuparmi. Forse anche perché, come me, aveva la malattia del gioco nel sangue. Però, ben diverso da me e dal novantanove virgola nove per cento dei giocatori, aveva una qualità sublime:

Sapeva perdere, sempre, con il sorriso sulle labbra. Grandissimo regista, dunque, malinconico e autoironico. Ma anche un giocatore esemplare per lo stile e l’educazione. Un gran signore, come si dice a livello popolare. L’azzardo, psicologicamente, era un suo modo personale per placare le inquietudini e le angosce interiori. E in una serata a volte lasciava al tavolo verde l’incasso di una intera tournée teatrale. Ci sono molti aspetti, nella vita di Vittorio De Sica, che mi hanno affascinato. Mi soffermo su quello meno importante (molto suggestivo, tuttavia, per me), la sua passione per il
gioco, che condividevo forse anche per una forma di giovanile spirito di imitazione, visto che tra me e il grande artista c’erano quarant’anni – per l’esattezza 41 – di differenza: lui nato a Sora nel 1901 (morì in Francia nel 1974). Non l’ho frequentato e neanche incontrato, se non occasionalmente,
giustappunto vicino ai tavoli dei casinò. E tuttavia non resisto alla tentazione di scriverne, comunque: oltre che un giocatore, lo considero, come del resto mezzo mondo lo apprezza, un maestro del cinema, di immensa ed eclettica qualità, uno dei padri del neorealismo, nonché il brillantissimo, e mai volgare, regista di tante commedie all’italiana.

Quanto al gioco d’azzardo, lo vedevo a Montecarlo e a Sanremo, a Saint Vincent e Venezia. E con i miei figli ho scherzato, loro mi hanno preso in giro perché, leggendo le interviste dei figli di De Sica, hanno scoperto che ogni estate il grande attore e regista proponeva in famiglia: «Dove volete andare questa volta? Scegliete voi la vacanza che più vi piace!». E, però, la scelta era ristretta alle città in cui i casinò erano rinomati e popolari.
Esattamente ciò che, per qualche lustro, sciaguratamente facevo anch’io, con le stesse bonarie parole, al momento di decidere il luogo delle vacanze.
Negli anni Cinquanta e Sessanta i casinò non avevano ancora scopiazzato la moda in seguito imposta da Las Vegas e Atlantic City con slot machines e giocatori d’ogni risma – ma erano luoghi ben frequentati, c’erano feste da ballo con l’obbligo dello smoking per i maschi e del vestito lungo per
le signore. Si potevano incontrare celebrità come Gianni Agnelli, il re Faruk che accettava qualsiasi puntata, imprenditori famosi come Giovanni Borghi, il «cumenda» fondatore della Ignis; attori e attrici come Elizabeth Taylor, Tyrone Power, Omar Sharif sempre gentilissimo, con il tic di rosicchiarsi di continuo le unghie, Eduardo De Filippo. De Sica non frequentava solo i casinò italiani o quelli della Costa Azzurra: giocava in tutto il mondo. Mario Puzo lo cita come uno dei tre più grandi e accaniti giocatori nella storia di Las Vegas. Il figlio Manuel dice che il papà giocava anche quando era povero, l’azzardo era il suo modo di placare tormenti non conosciuti, non confessati. Ricordo De Sica come un giocatore malinconico, come se si sentisse sempre predestinato a perdere. Una volta, alzando gli occhi al cielo dopo una puntata sfortunata alla roulette, gli ero quasi a fianco, mormorò :

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“Aveva la malattia del gioco nel sangue. Non frequentava solo le sale italiane o francesi, ma quelle di tutto il mondo rimettendoci
cifre da capogiro”

«Questi lampadari, queste sale monumentali, tutto è stato costruito con i nostri soldi… Dovrebbero mettere almeno una targa, per ricordarlo».
Non ci pensò nessuno, ma nel 2008 il Casinò di Venezia finanziò il restauro di uno dei suoi capolavori, Ladri di Biciclette, segnalato anche dai giornali come un piccolo risarcimento a fronte delle sue colossali perdite. Quanto avrà perso? Impossibile dirlo, c’è chi sostiene che si tratta di una cifra non inferiore ai guadagni che otteneva nelle sue varie attività artistiche (spesso accettò lavori che non gli piacevano, pur di poter contenere i debiti del gioco). La sua seconda moglie, Maria Mercader, racconta che spesso, in una sera, perdeva ciò che aveva appena incassato nelle serate delle sue tournée teatrali. Secondo Alberto Sordi, che lo ha conosciuto bene, De Sica era perfetto, elegante, e nella sfortuna privo di reazioni di malumore. «Sembrava che gli piacesse perdere, più perdeva e più si eccitava». Eugenio Scalfari lo ricorda dopo una serata puntualmente sfortunata a Sanremo: acconsentì a cantare Parlami d’amore Mariù, accompagnato al pianoforte dalla mamma di Eugenio, per accontentare la richiesta dei suoi ammiratori. De Sica scrisse anche un decalogo, per i giocatori. Perdonatemi la vanità: anch’io ne ho inventato e pubblicato uno, nei miei libri.

Il mio decalogo è incentrato su consigli di modesta saggezza, per evitare di farsi scorticare dal banco; quello di De Sica è un meraviglioso e utopistico manuale sull’indispensabilità di una corretta eleganza al tavolo. Regola fondamentale: comportarsi con freddezza, sia se si vince sia se si perde, senza far trasparire le proprie emozioni. Si dice che, quando aveva perso tutto, De Sica comunque lasciava il tavolo sorridendo, dopo un baciamano alle signore che conosceva e una congrua mancia ai croupier e ai valletti.

All’altezza di Marcel Proust, che rientrava all’albain albergo, senza neanche più uno spicciolo in tasca: si faceva prestare dal portiere di notte una somma considerevole, per lasciargliela subito di mancia (e il tacito impegno a restituirla il giorno dopo).

Su De Sica sono stati scritti molti libri. Oltre a quelli, ben conosciuti, del figlio Manuel e di Giancarlo Governi, mi è molto piaciuto La mia Vita con Vittorio, scritto da Maria Mercader. Proverò a riassumere la mia stima, che ho già definito immensa, in tre motivazioni, per me fondamentali. La straordinaria versatilità, nel teatro e nel cinema, come attore e regista. La – rarissima – qualità di brillare e di imporsi sia nell’intrattenimento sia nel drammatico neorealismo, di cui è stato riconosciuto il padre (insieme con Roberto Rossellini e Luchino Visconti). E infine il successo mondiale con i quattro Oscar (ebbe la nomination anche per Matrimonio all’italiana) e decine di altri riconoscimenti, dovunque: 40 regie, 150 ruoli da attore, innumerevoli recite a teatro. La sua popolarità diventò eccezionale grazie all’interpretazione del maresciallo Carotenuto, instancabile corteggiatore di Gina Lollobrigida, in Pane amore e fantasia. A teatro e nel cinema brillava per l’immediata simpatia che riusciva a suscitare, grazie a un sorriso smagliante e all’affabilità. Era un seduttore nato, irresistibile: gli vengono attribuite decine e decine di storie sentimentali. Puntualmente si innamorava, novello Casanova, delle attrici con cui lavorava nei film o a teatro, oltre alle avventurette di qualche giorno o di qualche ora con le ammiratrici. Nel 1937 sposò Giuditta Rissone, attrice affermata in un’importante compagnia teatrale, e con lei ebbe una figlia, Emy.

C'erano una volta / Vittorio De Sica - La Mescolanza

Nel 1942 conosce la Mercader, nata a Barcellona in una ricca e austera famiglia, costretta a fuggire dalla Spagna, dapprima a Parigi e poi a Roma, per le vicende legate alla guerra civile. È l’inizio di un romanzesco legame – la Mercader era una giovane attrice molto ricercata – un rapporto dapprima clandestino e poi pubblico, chiacchieratissimo, senza segreti. Ma Vittorio non riesce a separarsi dalla Rissone, anche se Maria si consolida sempre più come il suo unico e vero grande amore. Da lei ha due figli, Manuel e Christian. Nel 1954 Vittorio prima divorzia in una compiacent e località americana e cinque anni dopo sposa Maria in Messico, ma il divorzio e le nozze sono nulle, per la legge italiana. Solo nel 1968 De Sica, che ha ottenuto la cittadinanza francese, può sposare regolarmente – a Parigi – l’amante di tutta la vita. Per tanti lustri, il gran seduttore era riuscito a ottenere sia da Giuditta Rissone, sia da Maria Mercader l’accettazione (grazie al suo fascino e alla abilità dialettica) della coesistenza di quel duplice legame. È rimasto celebre l’attaccamento di Vittorio alle due famiglie, con doppi pranzi e doppi festeggiamenti ai pranzi di Nàtale e perfino a Capodanno, grazie all’orologio messo avanti di due ore, una finzione necessaria peri bambini. De Sica muore in Francia, in una clinica a Neuillysur-Seine, stroncato da un tumore a un polmone, il 13 novembre 1974.

Il Casinò di Venezia finanziò il restauro di uno dei suoi capolavori, «Ladri di Biciclette», come piccolo risarcimento a fronte delle sue colossali batoste

Nel libro di ricordi di Maria Mercader (sincero, anche crudo, veristico) ho trovato alcuni aspetti della personalità di Vittorio De Sica, che mi inteneriscono. E vedo sempre il giocatore nei suoi comportamenti. La curiosità, la sfida, la cautela diffidente, la voglia di interrogarsi su tutto.
Era, ad esempio, un uomo gelosissimo: tormentava Maria con estenuanti interrogatori. Non credevà che fosse arrivata vergine all’unione con lui. E, nelle infinite discussioni, arrivò perfino agli schiaffi:
una volta, per il sospetto di una relazione di Maria con Luchino Visconti, poi per un presunto idillio con il produttore Peppino Amato. E andò fuori di testa perché la sua donna amatissima, e innocente, per provocarlo, gli disse che aveva ammirato un pene. Vero, era quello di Amedeo Nazzari, ubriaco, che per scherzo si presentò nudo davanti a lei. Il figlio Christian ha ricordato così la passione del padre per il gioco d’azzardo: «Nei casinò perdeva tutto ciò che guadagnava. Una volta a Montecarlo lasciò sul tavolo talmente tanti soldi che Onassis, comproprietario del Casinò, gli disse: “Con quello che lei ha perso, noi rifaremo tutte le aiuole intorno al palazzo”. Meno male che mamma al casinò, invece, vinceva parecchio e sosteneva le spese del ménage familiare».

Vittorio era sempre al casinò, ne usciva quasi sempre perdente, ma impassibile, con la testa alta. La Mercader ha scritto: «Quando girava con la sua compagnia si giocava tutto e mi raccontò che spesso succedeva che dovesse tornare senza una lira, in treno, in terza classe». Una volta, a seguito della premiazione del film Pane, amore e gelosia, De Sica al Casinò di St. Vincent vinse una grossa cifra: Maria Mercader, temendo una successiva sconfitta, fece sparire velocemente alcune grosse fiches mentre Vittorio era ancora intento a puntare. Amava tanto il gioco da preferirlo anche alla sua adorata Ischia. Sull’isola si recava abitualmente, ma una volta confessò che non si sarebbe mai trasferito lì, definitivamente, perché nell’isola non c’era il casinò.