Lo scalatore devoto a Maria che disse no al Papa e alla Dc
Prima delle salite sconfìsse la povertà in sella a una bici. Aiutò gli ebrei e i partigiani pregando la Madonna. A Pio XII diede un dispiacere rifiutandosi di entrare in politica
(di Cesare Lanza, per LaVerità)
«L’è tutto sbagliato, l’è tutto da rifare». Questa è la celebre, ricorrente battuta di Gino Bartali, amatissimo campione del ciclismo, brontolone indomabile e, soprattutto, eroe nazionale che salvò centinaia di ebrei e altri infelici, perseguitati durante la seconda guerra mondiale. Di Gino Bartali scrivo con piacere per vari motivi. Il primo è che, fin da bambino, per istinto e buona coscienza sono sempre stato dalla parte dei perdenti. E lo sport è una metafora della vita: Bartali, gran perdente, mi coinvolgeva emotivamente molto di più del suo grande antagonista Fausto Coppi, vincente, ciclista di qualità indiscutibilmente superiore. La rivalità tra Coppi e Bartali aveva spaccato l’Italia in due fazioni e io, naturalmente, ero bartaliano. Il secondo motivo: Gino Bartali, nato nel 1914, era coetaneo di mia madre e mia madre assomigliava a Ginettaccio – chiamato affettuosamente così dai tifosi per il suo caratteraccio – per lo spirito ribelle e critico. Infine, da adulto, ho incontrato qualche volta Bartali: in privato era esattamente come l’avevo immaginato, diversamente – nel bene o nel male da tutte le altre celebrità che ho conosciuto nella mia carriera. Gino era timido, riservato, semplice e visibilmente onesto, profondamente religioso: uno di noi, una figura spontaneamente familiare. Per dare un’idea chiara di questo singolare protagonista dei nostri tempi, vi propongo alcune dichiarazioni sue e ricordi e giudizi esternati da altri su di lui. Oltre al tormentone sul «tutto da rifare», ecco altre cose che diceva spesso, anche a me quando ebbi la fortuna di parlargli a tu per tu. «Alla Madonna ho promesso che avrei fatto le cose per bene, perché tutto quello che faccio, lo faccio a nome suo. E così lei è stata attenta a non farmi sbagliare». «Il bene si fa, ma non si dice. E certe medaglie si appendono all’anima, non alla giacca». «Oggi i corridori guadagnano bene e non sono più figli della povertà, ai miei tempi, soprattutto prima della guerra, si correva per andare in fuga dalla povertà . . . » . «Pensa che persino Gianni Brera, grande coppiano, un giorno mi scrisse una lettera per dirmi che in fondo mi stimava. Confessava che mi aveva detestato. Pensava che fossi un Bertoldo devoto, perché ero cattolico praticante. E allora?». «Il doping? Parola sconosciuta ai miei tempi. Le bombe di allora erano le pastiglie di sdenamina. Ho provato pure io a prenderle. Ma ero allergico e mi provocavano crampi e vomito. Le mie vittorie sono state pulite». «Di Pantani penso che si tratta di un bel corridore. Il 90 per cento dei corridori si aiuta con ritrovati chimici… Comunque Pantani è un ottimo scalatore». Il 18 luglio 1999 (giorno del suo ottantacinquesimo compleanno, un anno prima della sua morte) Gino era festeggiato da amici, parenti e tifosi a Firenze. Era felice: «La gente mi vuole bene, vado in fuga verso il centenario, mi arrivano pacchi di lettere, in tanti vogliono sapere della mia salute: vuol dire che nella vita qualcosa di buono l’ho combinato». Ed ecco alcune testimonianze da parte dei suoi familiari, molto significative, su di lui. Andrea Bartali, il figlio: «Per molto tempo non raccontò a nessuno degli oltre 800 ebrei salvati dalla morte durante la guerra. Poi me lo confidò con la raccomandazione di non raccontare nulla… Nell’autunno del 1943 mio padre venne arrestato dalla polizia fascista: a Firenze c’era il temutissimo comandante Mario Carità. Venne fermato, ma nessuno ispezionò la sua bicicletta: grazie a questa “dimenticanza” si salvò». E ancora Andrea: «Papa Pacelli era un suo tifoso: lo ricevette in udienza dopo l’impresa al Tour del 1948, per congratularsi. Papà si era già sentito onorato quando Pacelli, Pio XII, affacciandosi a piazza San Pietro per un raduno di Azione cattolica fece il suo nome come esempio di uomo attaccato alla fede e alla famiglia. E ancor di più quando Pio XII gli aveva chiesto di iscriversi alla De e di partecipare alle elezioni. Papà ci pensò e poi rispose: «Dire di no al Papa è come dire no al Padreterno. Ma devo rifiutare per rispetto di una parte dei miei tifosi». La moglie di Gino Bartali, Adriana: «Gino era un toscanaccio che poteva apparire burbero e invece era dolcissimo e anche timido. Solo che non lo dava a vedere, perché non voleva mostrare le sue debolezze, che poi erano anche le sue virtù: tanto che a un certo punto, prima di fidanzarci, a forza di guardarmi senza dire mai niente, fui io a incoraggiarlo, timidamente. Altrimenti a quest’ora era ancora li a girarmi intorno…». E ancora Adriana sul salvataggio di molti ebrei: «Non aveva mai detto niente neppure a me, dei fogli che nascondeva nel telaio della bicicletta… Gino era stato fermato più volte dai fascisti, sulle montagne, perché lo ritenevano amico dei partigiani. Lui ripeteva a tutti le stesse parole: macché politica, io sono Bartali, uno sportivo, corro tutti i giorni per allenarmi. Ma una volta le accuse erano pesanti: gli fu tolta la bicicletta, fu sbattuto in galera e condannato alla fucilazione. Si salvò con l ‘arrivo degli Alleati… Il Bartali partigiano si può spiegare con la sua grande fede religiosa». E al di là dei parenti? Il grande scrittore e giornalista Curzio Malaparte, abitualmente ipercritico: «Amo molto Bartali. Non solo perché siamo nati tutti e due nella patria di Dante Alighieri, di Petrarca e Michelangelo... Bartali possiede la fede ingenua e profonda dei toreri spagnoli. Ogni volta, prima di sfidare il toro, si inginocchia e prega: ogni volta, dopo aver ucciso la tappa, si inginocchia e prega per ringraziare Dio di avergli concesso la vittoria contro la strada, contro il cronometro o contro il toro Coppi. Bartali è un uomo nel senso antico, classico, un asceta che in ogni istante mortifica e dimentica il corpo, un mistico che confida soltanto nel proprio spirito e nello Spirito Santo». Paolo Conte canta: «Oh, quanta strada nei miei sandali, quanta ne avrà fatta Bartali, quel naso triste come una salita, quegli occhi allegri da italiano in gita, e i francesi ci rispettano che le balle ancora gli girano, e tu mi fai – dobbiamo andare al cine – e vai al cine, vacci tu…». Era nato a Ponte a Ema il 18 luglio 1914, figlio di Torello, sterratore che accendeva i lampioni a gas, e di Giulia, che lavorava la rafia. Da piccolo Gino fu sotterrato per gioco sotto la neve dai compagni, da lì la voce roca che l’avrebbe caratterizzato per tutta la vita. Il 1940 segna l’inizio della grandiosa rivalità con Coppi. Fausto arriva nella Legnano, la squadra di Bartali: un ragazzo alessandrino, voluto proprio da Gino come gregario. Bartali si preparava per cercare di vincere il suo terzo Giro, ma cadde (un cane gli tagliò la strada) e si incrinò un femore. La Legnano puntò su Coppi, quello meglio piazzato in classifica. Bartali gli fece i complimenti e si mise al suo servizio. Fausto vinse il Giro, che si chiuse il giorno prima dell’entrata in guerra dell’Italia. E la guerra per cinque anni determinò l’interruzione della carriera per i due campioni. Poi, nel 1946, Gino vince il suo terzo Giro d’Italia e nel 1948 il secondo Tour de France. Ecco le sue principali vittorie: tre Giri d’Italia (1936,1937, 1946), due Tour de France (1938,1948), due Giri di Svizzera (1946,1947), quattro Milano – Sanremo (1939, 1940, 1947, 1950), tre Giri di Lombardia (1936, 1939, 1940), quattro campionati italiani (1935,1937, 1940,1952). Il 20 maggio 1998 Gino si trova a Peschiera del Garda, quando una fitta tremenda all’addome gli mozza il fiato. Da otto anni convive con lo stimolatore cardiaco. Teme l’infarto. La diagnosi: crisi ipertensiva e arteriosa. Il 22 maggio l ‘intervento al cuore dura cinque ore. Bartali è forte, la guarigione è rapida. Dice che vuole continuare a correre, verso il centenario. Ha disputato un migliaio di corse (903 per la precisione, solo 28 ritiri). «Non abbandonerò nemmeno questa volta. Naturalmente scherzo: è solo Lui a decidere sulla mia vita. E io mi rimetto alla sua volontà, questa volta senza brontolare». Morì il 5 maggio 2000 per un attacco di cuore nella sua casa di Firenze. È sepolto nel cimitero di Ponte a Ema. Ad Adriana nel 2005 è stata consegnata la medaglia d’oro al valore civile. Nel 2006 la Rai ha prodotto una miniserie intitolata Gino Bartali L’intramontabile, il campione è stato interpretato da Pierfrancesco Favino. Ginettaccio aveva anche partecipato ad alcuni film, il più noto Totò al Giro d’Italia. Il 22 aprile 2018, la nomina postuma a cittadino onorario di Israele. Infine c’è la famosa vicenda del 1948, legata all’attentato a Palmiro Togliatti, agli scioperi e alle insurrezioni conseguenti alla strepitosa vittoria di Bartali al Tour de France: davvero Gino ha salvato l’Italia dalla guerra civile? Ricordo una sua intervista nel 1998, cinquant’anni dopo: «Il giorno dell’attentato ricevette una telefonata da De Gasperi?». «Non subito. Ma la sera, alle nove. Quando Pallante sparò a Togliatti io stavo a Cannes, una giornata di riposo del Tour, prima delle tappe alpine. I francesi festeggiavano il 14 luglio. I loro giornali mi davano per spacciato, ero settimo in classifica. Il Tour l’avevo vinto giusto dieci anni prima. La notizia arrivò all’ora del pranzo: radunai la squadra. Dissi: “Ragazzi, se Togliatti muore si va tutti a casa. Scoppia la rivoluzione, voglio stare vicino alla mi’ famiglia. Se però Togliatti sopravvive, si continua a correre. E se si corre, si corre per vincere”». E De Gasperi cosa le chiese? «Mi domandò se il giorno dopo avrei potuto vincere il Tour. Domani, gli risposi, c’è la prima grande tappa di montagna, da Cannes a Briangon, durissima. Ma De Gasperi insisteva: è importante che tu vinca. E io: non posso prometterti che vinco il Tour perché il Tour lo si vince arrivando a Parigi in maglia gialla. Ti garantisco la tappa». Le dissero che Togliatti, dall’ ospedale, volle informarsi di come andavano le cose al Tour? « Sì, e mi commossi. Sapevo che anche Togliatti era un mio tifoso. Io piacevo agli operai perché ero figlio di gente umile. Ero un cattolico, e un gran lavoratore. Partii da Cannes pensando: se devo tornare a casa stasera, corro come se questa debba essere l’ultima tappa. All’arrivo chiesi: in Italia, come va? Togliatti migliora, mi risposero. Miglioro anche io, dissi». Il 16 luglio la Cgil stabilì la fine delle agitazioni, nello stesso giorno Bartali rivince al Tour: l’Italia si riconcilia un po’ di più grazie alle sue imprese? In fondo, non era quello che le aveva chiesto De Gasperi? «Non è che io l’abbia fatto apposta o su ordinazione. Certo, sapevo dei momenti difficili, ma non è stato questo lo stimolo ad anticipare i tempi per la conquista della maglia gialla. È stata la fatalità. Il mio orgoglio». L’episodio, entrato nella storia, resta comunque controverso. Certo si rischiarono giornate rivoluzionarie; certo Bartali sapeva dell’attentato a Togliatti perché quasi tutti gli inviati erano stati richiamati in patria; certo, mentre Togliatti si stava riprendendo, Bartali vinse il Tour in modo trionfale; e certo l’entusiasmo popolare dilagò e la rivoluzione non ci fu. Le interpretazioni sono numerose, nessuno potrà stabilire con certezza se ci furono connessioni emotive e quale sia stata la realtà. Nel mistero resta anche l’origine della famosa fotografia in cui Bartali e Coppi sono immortalati – Tour del 1952, sulla montagna del Galibier mentre si scambiano la borraccia. La passò Gino a Fausto o Fausto a Gino? O i due rivali si misero in posa, acconsentendo alla genialata di un bravo fotografo? È passato troppo tempo, non si saprà mai la verità.