
Una delle forme più acute di sofferenza deriva dal mancato avvio di una comunicazione. È qualcosa che può accadere nei più diversi ambiti, dalle relazioni con i nostri cari fino all’ambiente di lavoro. Proprio sui luoghi di lavoro, generalmente, codici non scritti non incoraggiano la manifestazione degli stati d’animo “negativi”, per il rischio che essi siano intesi come forme di debolezza. La mancata manifestazione di tali stati d’animo funge da zavorra relazionale: in altri termini, non siamo incoraggiati a tentare di stabilire relazioni con coloro con cui abbiamo in passato sperimentato l’esistenza di problemi.
Per superare questa impasse occorre invece trovare il coraggio di esprimere la propria vulnerabilità. Esprimere la propria vulnerabilità intanto ci fa sentire meglio. Ci fa sentire compresi. Accolti. Al tempo stesso, mette l’interlocutore nella condizione di comprendere che le sue azioni non sono prive di conseguenze ed, in linea di massima, crea un clima di maggiore attenzione nei confronti dei sentimenti altrui. La comunicazione – e l’etica della comunicazione, in particolare – non può prescindere dalla attuazione di tali dinamiche.
Ad un ulteriore livello, aver espresso la propria vulnerabilità ha l’effetto – secondario, ma ugualmente importante – di rendere anche noi stessi consapevoli che le nostre azioni possono ferire gli altri.
Dunque, mentre esprimiamo la nostra vulnerabilità non stiamo soltanto facendo un favore a noi stessi, ma stiamo fornendo un contributo per rasserenare l’ambiente di lavoro.
Non funziona, invece, l’atteggiamento opposto, tendente a celare o a procrastinare la espressione della propria individualità. Succede così che, da un lato, noi non manifestiamo i nostri sentimenti, soprattutto quando sono sentimenti negativi, e, dall’altro, ci lamentiamo che nessuno si accorga che stiamo male. Più espliciti e diretti siamo nell’esprimere i nostri sentimenti, più facile sarà per gli altri venire incontro ai nostri bisogni.
Giovanni Scarafile, dal suo blog omonimo