I Paradise Papers svelano i patrimoni nascosti dai vip nei conti offshore. Il segretario del Commercio Ross coinvolto in affari con la famiglia Putin
È uno tsunami politico-finanziario, generato fra le spiagge da sogno dei paradisi fiscali. Che si è democraticamente abbattuto su presidenti, monarchi, politici, cantanti, imprenditori e colossi della Silicon Valley. Travolgendo nell’ondata di piena perfino la regina Elisabetta. Ma rimettendo sulla graticola anche l’entourage di Trump, da un lato, oltre che Facebook e Twitter dall’altro.
Tutto nasce dalle carte riservate di uno studio legale, Appleby, sfacciatamente al centro di un ecosistema di società offshore distribuite fra Bermuda, isole Cayman, isole Vergini britanniche, isola di Man, e altri noti paradisi fiscali. Ma anche dai file dei registri imprese di 19 giurisdizioni di questo tipo. Una mole immane di carte riservate – 13,4 milioni di documenti, in un arco temporale che va dal 1950 al 2016 – finite in mano al giornale tedesco «Süddeutsche Zeitung» e poi ricondivise con il Consorzio internazionale dei giornalisti d’inchiesta (Icij).
Ne è risultato un nuovo, illuminante squarcio nella cortina fumogena che normalmente ricopre investimenti e connessioni nascoste, evasioni fiscali, girandole societarie per insabbiare affari e guadagni. L’ennesimo, dopo i Panama Papers dello scorso anno nati dai file riservati dello studio legale Mossack Fonseca. Solo che questa volta l’operazione è stata chiamata Paradise Papers, e i nomi tirati in ballo sono di primissimo piano. A cominciare dalla regina Elisabetta. Dalle carte è venuto fuori che una sua società privata, The Duchy of Lancaster, ha investito 7 milioni e mezzo di dollari in un fondo delle isole Cayman. Che poi, attraverso una società di private equity, ha a sua volta investito in una controversa immobiliare, Brighthouse, accusata di applicare tassi di interessi stellari in dubbie operazioni di affitto e vendita, ai danni di fasce svantaggiate della popolazione. La regina – ha poi dichiarato al «Guardian» una sua portavoce – non sarebbe stata a conoscenza di questo genere di investimenti. Certo quel fondo alle Cayman fa una certa impressione.
Ma i Paradise Papers hanno anche buttato benzina sul fuoco sui discussi rapporti fra il governo e l’entourage di Donald Trump con il Cremlino. In particolare è venuto fuori che il segretario al Commercio degli Stati Uniti, Wilbur Ross, sarebbe in affari con alcuni magnati russi. Il problema nasce dal fatto che il politico avrebbe ancora quote in un’azienda di trasporti, la Navigator Holdings, i cui proprietari sono Kirill Shamalov, genero di Putin, e due oligarchi russi del settore energia, Gennady Timchenko e Leonid Mikhelson, le cui società sono pure soggette a sanzioni americane. Ross era già stato interrogato dai giudici per il suo ruolo da vicepresidente di una banca cipriota sospettata di finanziare oligarchi russi vicini a Putin. E questa nuova rivelazione non lo aiuta.
Le carte dei paradisi fiscali tirano in mezzo anche Facebook, Twitter e alcuni loro investitori. In pratica due istituzioni statali russe, con legami col governo, avrebbero finanziato alcuni importanti investimenti nelle due società tech americane. E tutto ciò attraverso il fondo di investimento Dst Global di un noto magnate russo del settore tecnologico, Yuri Milner. Peraltro l’uomo detiene pure una quota in una società, la start-up Cadre, nata nel 2014, di cui è co-proprietario Jared Kushner, genero di Trump nonché consigliere del presidente Usa. In particolare sarebbe stata la banca Vbt, considerata vicina al Cremlino e ai servizi russi, a veicolare 191 milioni di dollari di investimenti su Twitter nel 2011. Mentre nello stesso periodo Gazprom Investholding avrebbe finanziato una offhosre, che a sua volta acquistò una importante partecipazione in Facebook. Sia Vbt che Gazprom sono soggette a sanzioni americane. Va detto però che Milner aveva investito in molte aziende tech – 7 miliardi di dollari in più di 30 aziende, incluse Airbnb e Spotify – e che quelle due partecipazioni sono state poi rivendute. Ma sicuramente l’interesse di potenti imprenditori e investitori russi nei social media Usa, anche se avvenuto in tempi non sospetti, è destinato a surriscaldare il clima interno americano, e soprattutto i rapporti fra la politica e la Silicon Valley. Twitter e Facebook sono infatti da tempo sulla difensiva, accusate di aver veicolato la propaganda russa sulle proprie piattaforme prima e durante le ultime elezioni presidenziali.
La Stampa