La killer mediatica di Leone non tollerava Oriana Fallaci. La giornalista, regina dei salotti milanesi, fu artefice di campagne sbagliate e feroci Si accanì contro il capo dello Stato (costretto a dimettersi) e il commissario Calabresi.
Camilla Cederna, per me, è una spina nel cuore. Penso che questa spina me la trascinerò dentro alla coscienza fino alla fine dei miei giorni, che peraltro non dovrebbe essere molto lontana. Vi spiegherò perché, ma prima – forse anche per giustificarmi e implorare le attenuanti generiche – devo illustrarvi la grandezza e i limiti, la spudoratezza e lo stile raffinato, l’ambizione e i capricci di questa straordinaria giornalista. Si era affermata con articoli sull’Europeo, quando l’editore era il vecchio, geniale Angelo Rizzoli. Il quale, notoriamente, non leggeva i suoi giornali e tanto meno i libri della splendida casa editrice che aveva creato (partendo da zero). Ma sapeva riconoscere giornalisti e scrittori con intuito leggendario: gli bastavano quattro parole e uno sguardo negli occhi. Con Camilla non andò così, non ci furono parole e lo sguardo di Rizzoli non si concentrò sulle sue pupille. Non ricordo più chi mi abbia raccontato questo gustoso aneddoto, forse Giorgio Bocca, forse Gaetano Afeltra. Insomma: Rizzoli non frequentava la redazione dell’Europeo, giornale elitario e intellettuale, preferiva Oggi, settimanale popolare e di altissima tiratura. Un giorno aspettava l’ascensore e gli passò davanti Camilla, bella ed elegante. Rizzoli non la conosceva, si voltò verso chi lo accompagnava e con ammirazione bofonchiò: «È una nostra giornalista? Ostia! L’è proprio un gran bel culett…» Ho conosciuto la Cederna a metà degli anni Settanta, quando dirigevo il Corriere d’Informazione. Vivevo allora con una donna speciale: bellissima, curiosissima, mondanissima. Ogni settimana, con lei, almeno due ricevimenti nelle case delle regine dei salotti, almeno una serata alla Scala o una prima teatrale. E poi cene, pranzi, cinema, ricorrenze… Una vita estenuante. Dopo due anni mi stufai e tornai alla mia vita abituale. Ma in quei due anni andavo dovunque e quasi sempre (non sempre!), insieme con i soliti noti, incontravo la Cederna. E un ricevimento non poteva essere considerato un perfetto ricevimento, se non c’era Camilla, tra gli invitati. Camilla si concedeva regalmente, quindi con superiore discrezione, circondata immancabilmente da una fedelissima corte e da altri rispettosi ospiti, ammiratori desiderosi di conoscerla. Non so se facevo parte della corte, ma certo potevo dare questa impressione! Camilla – nata a Milano il 21 gennaio 1911 (si spense sempre a Milano il 5 novembre 1997, proprio oggi ricorrono i 20 anni) – aveva l’età di mia madre, anzi perfino un po’ più anziana: come sempre sono stato attratto dal talento e dalla bravura, la stimavo per la qualità indiscutibile della sua scrittura. Era famosa da tanto tempo, la musa radical chic di ogni evento importante, cronista meticolosa e perfezionista e, allo stesso tempo, scrittrice ironica, brillante e cinica. In questo, una vera maestra di giornalismo: consiglio a tutte le ragazze, che vogliano affrontare il nostro mestiere, di leggere almeno qualche libro, scegliendo tra le decine che ha pubblicato. In primo luogo, Il lato debole. Da ogni riga si può imparare qualcosa, per lo stile e la scrittura. Il costume, per lei, era «il riflesso di ogni evoluzione economica, sociale, ideologica e culturale,» Nei salotti di questo indelicato argomento non si parlava (sarebbe stato volgare!), ma era già nota a tutti la profonda, gelosa rivalità con Oriana Fallaci. Cederna aveva raggiunto il successo ben prima della rivale e inizialmente era stata la Fallaci, non solo privatamente, a detestarla, esprimendosi con battute taglienti. Poi, il successo di Oriana esplose con clamori assordanti, con riconoscimenti internazionali, forse anche esagerati (presto scriverò anche di lei) e toccò a Camilla riservare all’antagonista frecciatine al curaro, con visibile origine d’invidia. Su Wimbledon, un mensile di Giorgio Dell’Arti, la Cederna pubblicò un ritratto assai poco lusinghiero, dicendo che Oriana era andata su tutte le furie per ciò che aveva scritto: «Mi descrisse come una pazza anticomunista, in preda a un delirio isterico…». Si diceva che la Fallaci non sopportasse rivali nel giornalismo, ma anche, in assoluto, con altre donne. Certo aveva un caratteraccio. I lettori si divisero presto in cederniani e fallaciani. Elvira Serra ha scritto che, all’Europeo, le due signore non potevano essere più diverse. Paola Fallaci ha rievocato come Camilla si arrabbiò perché la rivale aveva iniziato un suo articolo con un avverbio «perché quello era il suo stile». E Oriana la mandò di brutto a quel paese, diciamo così, eufemisticamente. E a questo punto, finalmente, vi racconto il mio problema, la spina che mi è rimasta in cuore, certo per assoluta mia colpa, ma con riferimento a lei, Camilla Cederna. Presumo – ma è verosimile che proprio in conseguenza dell’estrema rivalità con Oriana Fallaci, a un certo punto della sua carriera Camilla avvertì l’esigenza di allontanarsi dalle deliziose cronache di costume e puntò sulla politica. Era un’icona. Una figura carismatica, intoccabile. Una guida. Ed ebbe un successo automatico: tanto immediato quanto ingiusto. Camilla si avventò in una campagna crudamente ostile verso il presidente della Repubblica, Giovanni Leone. Con un consenso smisurato: lettori comuni, trascinati dalla sua prosa impetuosa, e intellettuali celebri, scrittori, registi, che l’assecondarono e la sostennero, avvinti dal suo fascino e dal suo nome, ma – tutti – senza conoscere i fatti, né minimamente il personaggio, Leone, posto sotto processo. Abboccai anch’io. E non me lo perdonerò mai. È l’unico episodio di cui mi vergogno, nella mia ultra sessantenne (e piccola) storia giornalistica. Ho chiesto scusa, più volte, ma so che non basta. Anche perché le mie scuse, doverose, sono rivolte ai lettori e a coloro che conoscono questa brutta vicenda. Non ho mai firmato i retorici manifesti che facevano capo alla Cederna, quelli che raccolsero le adesioni di tutti i capoccioni, veri e presunti, dell’intellighenzia italiana. Ma nel giornale che dirigevo ho fatto e autorizzato titoloni e articoli, che oggi, arrossendo, rinnego totalmente. Sarebbe bastato un po’ di buon senso, un pizzico di attenzione (che altri colleghi hanno avuto), per evitare di associarmi alla superficialità e alla rozzezza di quella campagna. Camilla pubblicò anche un libro, Leone, la carriera di un presidente, che vendette centinaia di migliaia di copie. Fu condannata, ma solo quando il danno era ormai irreparabile. Leone fu costretto alle dimissioni, a lasciare il Quirinale nottetempo. Uno scandalo che investe la nostra storia politica. La democrazia cristiana non lo difese minimamente. Peggio: un rappresentante della de, insieme con un esponente del partito comunista (i due partiti allora dominanti) salirono al colle per dire esplicitamente a Leone che le dimissioni sarebbero state un gesto saggio e opportuno, anche per evitare la possibilità dell’impeachment. Leone era un giurista insigne, un professore universitario, un uomo mite, calmo ed equilibrato, oggettivo. Più di una volta era stato nominato presidente del Consiglio dei ministri. Al Quirinale era però, ormai, un uomo stanco, provato e logorato dagli incessanti attacchi, dalle insinuazioni, dalle presunte rivelazioni. E perciò, avvilito, accettò di dimettersi. Qualche anno dopo Francesco Cossiga mi confidò (e lo dichiarò in varie sedi): «Se fosse successo a me, se avessi ricevuto la visita di signori determinati a pretendere che mi dimettessi, avrei chiamato i carabinieri». È noto, ma è d’obbligo ricordare, che Leone uscì del tutto indenne dalle montagne di accuse e di fango che gli furono buttate addosso. Emma Bonino e Marco Pannella, che erano stati in prima fila nelle accuse, si scusarono pubblicamente. Altri anche si scusarono. E Camilla? Non mi risulta. Mi consola il fatto che l’integrità e la dignità di Leone siano state pienamente riabilitate. Alla Cederna, che ebbe una grande amicizia con Licia Pinelli, vedova dell’anarchico inizialmente accusato della strage di piazza Fontana (12 dicembre 1969), fa capo un’altra pessima campagna di stampa. Contro il commissario di polizia Luigi Calabresi, che poi fu barbaramente assassinato dai terroristi. Anche in questo caso retorica a fiumi, accuse sommarie, insinuazioni prive di riscontri. E un coro di giustizialisti, di intellettuali, di volonterosi sottoscrittori di manifesti e partecipanti a ottuse manifestazioni. Su Calabresi pesava il sospetto, oltraggioso è ingiustificato, di aver spinto giù dalla finestra della Questura Pinelli, dopo ore di estenuante e inutile interrogatorio. Certo le circostanze della morte del povero anarchico furono, e rimangono, per molti aspetti, misteriose. Ma perché accusare Calabresi, un onesto e rigoroso funzionario di polizia, e indicarlo come un assassino, stabilire che meritasse di morire? In questa dissennata campagna la Cederna fu in prima linea. E le conseguenze furono terribili. Ci fu chi raccolse l’istigazione all’odio, e a uccidere, e il poliziotto fu assassinato. Un’altra orribile storia della nostra immatura e infelice Repubblica. Camilla fu indicata come la mandante morale dell’omicidio, non solo dal prefetto di Milano. Senza quelle due crudeli (inconsciamente, mi auguro) campagne di stampa, oggi la Camilla mi sembrerebbe più genuina e più apprezzabile. Era in fondo, per come la conobbi, una donna gentile, anche sentimentale. Non si sposò mai. Che si sappia, si innamorò solo di Dino Buzzati, dopo aver letto II deserto dei tartari. Ma non c’erano speranze. Camilla rivelò, con l’ironia sublime che la distingueva quando non scriveva di politica e di delitti, che Buzzati era stato educato nella convinzione che far l’amore era una cosa peccaminosa e, quindi, si poteva fare con le peccatrici. E Camilla peccatrice, almeno per questo aspetto, peccatrice non era. Sosteneva che indignarsi è un dovere; «Tutto mi indigna oggi, il processo di decomposizione sociale che attraversa il nostro Paese». Si può darle torto? «Da noi il nemico primo della libertà è il potere. Guai a chi perde la capacità di indignarsi.» Ecco: purtroppo anche Camilla abusò del suo immenso potere di giornalista e si incattivì contro Giovanni Leone e Luigi Calabresi, che non meritavano indignazione, né la sua, né di una società che aveva perso la testa. Per me è una spina nel cuore Anch’io abboccai alla sua prosa impetuosa e crudamente ostile, però rozza nei contenuti, e attaccai il presidente: non me lo perdonerò mai.
di Cesare Lanza, La Verità.