Intervista al presidente e ad della griffe italiana sui segreti della ripresa (che si deve in gran parte ai millennials)
“Cambiare costa fatica perché impone di mettersi in discussione”. Parole sue, qualche mese fa. Cosa dice? Proviamo a fare un’intervista diversa da quelle che ho già letto?
«Proviamo».
Lei ripete spesso che, nel mondo della moda, “chi si ferma è perduto”. Traduzione?
«Devo rispondere?».
Be’, sì. Di solito funziona così. L’intervistatore fa una domanda, l’intervistato risponde.
«(Ride). Lo so, lo so. Certo, è così: chi si ferma è perduto. Noi lavoriamo in un settore di grande valore aggiunto, grande differenziazione, grandi margini. Ma siamo vulnerabilissimi a shock esterni. La Sars, le Torri Gemelle… I consumatori non comprano più. La possibilità di calare in pochissimo tempo è altissima. Il modo per tutelarci è far sì che le persone, la struttura e l’organizzazione siano flessibili. Per mantenerle così, la strategia migliore è lanciare continuamente progetti e mettere in discussione quello che hai fatto. Lo status quo, per me, non esiste. Non può esistere in questo settore. Se ti sclerotizzi, sei a rischio di estinzione».
Milano, via Mecenate, nuova sede di Gucci. Le officine Caproni rinconvertite: dove si facevano motori d’aeroplani, adesso si propongono abiti e accessori d’alta moda. Trentacinquemila metri quadri, muri rossi di mattoni. Pochi mobili, molte vetrate, grandi tappeti tradizionali, borghesi, che sembrano uscire dall’Adalgisa di Gadda. Ragazzi e ragazze diretti verso i tavoli colorati della mensa. Una Guccittà, più che un quartier generale. Gucci – proprietà francese, anatomia italiana, fisiologia milanese, genealogia fiorentina – arriva da due anni di risultati strepitosi. Le vendite del primo semestre 2017 sono arrivate a 2,8 miliardi di euro, cresciute del 43% rispetto al primo semestre 2016. Sembra di visitare il campo dell’allenamento di una squadra quand’è in testa al campionato: sorridono tutti.
Come riuscite a convincere il personale a cambiare continuamente? Molti, arrivati a una certa età, mostrano una coazione a ripetere. In ogni mestiere.
«Totalmente».
I professionisti…
«Totalmente»…
Gli industriali…
«Totalmente»…
I giornalisti, gli artisti, gli stilisti. Tutti.
«Totalmente»…
Allora, come si fa?
«Come si fa? Innanzitutto si deve cercare di rimanere curiosi. E attenti. Il mondo cambia velocemente. Non è una battuta trita e ritrita. È così. Specialmente il nostro mondo. I consumatori ti lasciano dopo tre secondi. Se tu non sei capace di mantenere questa conversazione continua, sei fregato, specialmente con i cosiddetti millennials. Questi ragazzi cambiano…».
Ho letto che costituiscono metà della vostra clientela. «Di più… Siamo al 57%. Pazzesco. E ne avevamo praticamente zero tre anni fa. In effetti tutta la crescita è data da loro, ed è meraviglioso».
Alessandro Michele, il vostro direttore creativo. Ricordo un pezzo del New York Times, sembrava avessero incontrato l’arcangelo Gabriele. So che era in azienda da dodici anni, quando lei l’ha scovato per sostituire Frida Giannini. Fortuna? Intuizione?
«Molta intuizione. Devi cercare di parlare e soprattutto ascoltare. Quando ho incontrato Alessandro ho intravisto il talento, ma se le dicessi che ho capito quello che sarebbe diventato, le direi una balla colossale».
È vero che ha girato il mondo quattro mesi per conoscere i dipendenti di Gucci?
«Ho incontrato quattromila persone. Il problema delle strutture gigantesche come Gucci è che c’è il capo, c’è il sotto capo, c’è il terzo capo, c’è il quarto capo… Sotto ci sono ragazzi meravigliosi che ci perdiamo. Ho incontrato giovani pazzeschi con delle idee incredibili».
E li ascoltate?
«E certo. Perché molte volte l’esperienza è la peggior prigione. Siamo abituati a rifare le cose come le abbiamo fatte prima. Soprattutto se abbiamo avuto successo».
Secondo la filosofia indù i primi venticinque anni sono l’età dell’apprendimento; i successivi venticinque anni sono l’età dell’ambizione; poi arriva l’età dell’incoraggiamento e dell’insegnamento. Lei ci è entrato, mi pare.
«Quando ho passato i cinquanta è stato come uno scatto nella testa. Ho capito che ero arrivato a un punto della carriera in cui non avevo paura di rimanere senza un soldo, che avevo comunque raggiunto successi di un certo tipo, che non avevo più bisogno di dimostrare nulla a me stesso o a nessun altro… Ha in mente l’uomo che va con le donne più giovani perché deve dimostrare di essere un “macho”, come quello che avete messo in copertina su 7 giovedì scorso? Ecco, non va bene. È bello aver voglia di restituire: vuol dire che hai perso la paura».
Frank Underwood, House of Cards: “La generosità è una forma di potere”.
«(Ride). E quello che stiamo mettendo in piedi a Firenze? Gucci ArtLab, uno spazio di 37.000 metri quadrati, assumiamo 900 persone. Apriamo all’inizio del 2018. Pelletteria e calzature. Il responsabile sarà Massimo Rigucci, che è partito tempo fa con questa iniziativa diventafornitoregucci.com. Abbiamo dato a persone e laboratori la possibilità di diventare nostri fornitori. Non facile, perché chiediamo il rispetto di regole – sostenibilità, ambiente, condizioni di lavoro – che altri non pretendono. Ecco la cosa di cui sono più fiero: aver stabilizzato l’occupazione, aver portato talenti nuovi, aver trovato ragazzi giovani. Così si dà un futuro all’azienda. Il cambiamento estetico? Lo sappiamo. È qualcosa nella moda entra, esce, oggi sei qua, domani…».
Dove sta oggi Milano rispetto a Parigi, Londra e New York? Come centro della moda, ovviamente. Sale, scende, è stabile?
«Secondo me è risalita».
Quindi era un po’ giù. Qual è stato il periodo più difficile?
«Mah… Secondo me tra 2008 e il 2012. Probabilmente è quello il momento in cui Milano è calata di più».
Quando il Salone del Mobile si apriva al mondo e le sfilate di moda si chiudevano in se stesse. Me li ricordo i ragazzi di fuori, con il loro telefonino, a vedere passare quattro cosiddetti vip…
«È molto vero! In quel periodo la moda era rimasta solo a fare le sfilate, mentre adesso gli eventi promossi durante la Fashion Week attirano curiosità e attenzione. Poi in effetti, sa, la Fashion Week dipende dai marchi che sfilano e da che tipo di attrazione questi marchi hanno per il consumatore, per i giornalisti, eccetera. Gucci, in effetti, ha dato una bella botta… C’è stato un periodo, mi ricordo, in cui i giornalisti facevano fatica a venire da noi. Mi ricordo che mettevano Cavalli alla fine e Gucci all’inizio perché altrimenti non sarebbero venuti a vederlo… Gucci aveva perso un po’ di attrattività, Armani anche lui…».
La moda è una narrazione: lo capisco perfino io, che ne so poco. La stampa italiana sa raccontarla?
«Domanda difficilissima questa…».
Domandare è facile. Rispondere sinceramente è difficile.
«Diciamo che c’è molta improvvisazione e ci sono giornalisti straordinari. Questi trovano subito il fil rouge, quelli si fermano all’aspetto più superficiale. Mi ricordo il Financial Times, tre mesi dopo che sono arrivato: ovviamente non c’era un prodotto di Alessandro, non c’era nulla. Escono i risultati: meno 9%. Titolo: “Il cambiamento di Gucci non porta risultati”. Io ho pensato “Ma capisci come funziona ’sto mondo o non lo capisci? Cioè, chiamami, ti spiego…”. Dico: il Financial Times!».
La moda è importante per l’editoria: non ci avete mai mollato, e ve ne siamo grati. Continuate a fare pubblicità sulla carta e online. Ma questo vi dà un potere che alcuni usano male. E intimorisce molti giornalisti. Non scrivono più niente di originale, hanno timore di urtare questo o quello.
«Può darsi, può darsi. Però ci sono giornalisti che non hanno peli sulla lingua: e sono quelli più apprezzati, alla fine. Nel lungo termine, la Suzy Menkes. La Vanessa Friedman, la più grande rompiscatole della storia… Non c’è un suo articolo dove non ci sia qualcosa di negativo. Ti fanno dannare, però sono veramente puntuali. E questo, alla fine, paga».
Insisto: non è eccessivamente permaloso, il mondo della moda italiana? Irriverente e iconoclasta da un lato; suscettibile dall’altro. Non le sembra una contraddizione?
«C’è un’emotività talmente forte, in certi processi … Per un creativo, il prodotto è il suo bambino. Lavoriamo nel settore perché ci piace, non perché siamo capitati qui per caso. Questo mondo è molto veloce e come tale siamo più emotivi…».
Però è assurdo che una casa di moda, per una critica o un’omissione, ritiri l’investimento pubblicitario. Ed è accaduto. Non mi dica che non lo sa.
«La prima leva che hai, quando qualcuno ti critica, è quella di dire “Sai cosa? Non investo più!”. Poi io ho Niccolò (Moschini, responsabile della comunicazione istituzionale, ndr) che quando mi alzo e urlo “No, basta!” mi dice “No, Marco…”. [Ride]. Ho avuto una grande lezione di stile, su questa cosa. Dopo la prima sfilata di Gucci nel 2015, la Littizzetto a Che tempo che fa fece vedere la sfilata di Alessandro Michele prendendo in giro l’aspetto androgino, “uomo, donna, non donna, pensa Gucci come è diventato!”. L’ha massacrato. Io ero basito. E non è che puoi dire: tolgo la pubblicità a Che tempo che fa. Lì non puoi fare niente. Chiamo Alessandro e lui mi dice: “Guarda, sai cosa? Loro fanno il loro lavoro, mi sono anche divertito”, e ha mandato un mazzo di fiori alla Littizzetto. E lì ho capito di aver centrato la scelta del direttore creativo!».
Il successo vi ha portato invidie, immagino.
«Le posso dire i peccati, non i peccatori. Quello famoso che sbotta: “Ma che cazzo stanno facendo questi di Gucci che c’è tutto pieno di gente il negozio, mentre da noi non c’è nessuno?”. Ma il più buffo è stato un altro gruppo concorrente. Il capo ha cominciato a dire ai suoi: “Che peccato Gucci! Un marchio così bello! Lo hanno rovinato!”. Poi, ai primi risultati positivi: “Va bene, ma quanto dura?”. Poiché continua ad andare così, non sanno più che pesci pigliare. Si stanno svegliando adesso. Hanno perso un anno e mezzo perché non avevano capito la portata del cambiamento».
Mi spiega com’è possibile che capi d’abbigliamento tanto insoliti diventino successi commerciali? Chi li indossa?
«Adesso le racconto. Quando è uscita la pantofola col pelo della prima sfilata di Alessandro, l’ho vista e mi sono detto: “Mah, andrà forte tra i super-fashionistas, ma non potrà avere un successo commerciale così importante…”. E invece».
Pantofole col pelo. Quanto costano?
«Siamo sui 780 euro».
Tanti soldi. Come vi difendete dalla concorrenza di Zara, H&M etc? Qualità buona, prezzi bassi, eccetera.
«Gucci ha sofferto tantissimo in un certo periodo per l’attacco di marchi come Michael Kors, Coach, eccetera. Se non vogliamo andare a combattere con gli Zara del momento, che ci massacrano sui costi, dobbiamo tenere un racconto e una qualità ineccepibili. Ma il sogno è quasi più importante dell’aspetto qualitativo. Occorrono le emozioni, nel nostro settore sono la chiave. Come disegni il prodotto, come lo presenti, come vai nel negozio. Sapendo di non poter accontentare tutti. Mi ricordo Alessandro, mentre preparava la prima sfilata…».
Quella messa su in cinque giorni?
«Sì, quella. Mi ha chiesto: “Cosa ne pensi? Quali sono i capi che ti piacciono di più?”. Io gli ho indicato quelli più estremi. Gli ho detto: “Guarda, se fai una roba a metà tra quello che vorresti fare e quello che c’era prima, siamo fregati. Tu devi andare sparato, non pensare alle vendite, non pensare a niente. Ti fidi della tua intuizione? Vai!».
Ma lei, Bizzarri, si vede con quei vestiti addosso?
«Mah, li compro… Che me li metta è un altro discorso [risate]. Io sono più classicone, però ce li ho nell’armadio…».
Ultima domanda. A Gucci c’erano Domenico De Sole e Tom Ford, poi Patrizio Di Marco e Frida Giannini, adesso Marco Bizzarri e Alessandro Michele. Non è che voi due finite nello stesso modo?
«Finiremo nello stesso modo sicuramente, è solo una questione di tempo. Ma Alessandro personifica Gucci. Quando sentirà che è venuto il momento di un cambiamento estetico, lo porterà. Alessandro per me è Gucci per i prossimi vent’anni. Marco Bizzarri può essere cambiato senza nessun problema. Quello che sto cercando di fare, adesso, è cambiare la cultura nell’organizzazione, in modo che possa andare avanti anche senza personaggi un po’ ingombranti come me».
Bizzarri: nomen omen. Un nome, un presagio.
«Esatto. Ma io sono contento così»
Beppe Severgnini, corriere.it/sette