Lavoro, il flop dei centri per l’impiego

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Il mancato decollo dell’Anpal, l’inefficienza dei centri di collocamento pubblici e lo scontro tra Stato e Regioni hanno portato al fallimento del piano per le politiche attive del Governo. E con la guerra dei governatori al ruolo dei privati molti posti richiesti dalle aziende restano scoperti

La ripresa cresce e si allarga. Le imprese tornano a cercare lavoratori ma offerta e domanda stentano a incrociarsi e moltissimi posti rimangono o rischiano di rimanere scoperti: circa 200 mila su 970 mila secondo il Rapporto Excelsior-Unioncamere. È una nuova prova del fallimento delle politiche attive e dei servizi per il lavoro in versione italiana, un fallimento dovuto largamente alla tradizionale inefficacia dei Centri per l’impiego pubblici e, da ultimo, al mancato decollo dell’Anpal, ma anche a quel groviglio burocratico-ideologico di regole che le regioni, anche quelle all’apparenza più efficienti, come Emilia-Romagna e Umbria, hanno creato e mantengono per limitare il ruolo delle Agenzie per il lavoro private. Un atteggiamento che viene da lontano e che le burocrazie regionali continuano a mantenere per foraggiare le strutture pubbliche a carico dei bilanci regionali e limitare quelle private che non costano al contribuente.

Se mettiamo a confronto i due sistemi, scopriamo che in media ogni addetto delle Agenzie per il lavoro riesce a trovare un’opportunità di impiego in un anno a 43 persone rispetto alle quattro alle quali riesce a procurarla ogni dipendente dei Centri per l’impiego. Gli ex uffici di collocamento pubblici, passati dalle province alle regioni, raggiungono i 550 sportelli sul territorio. Gli addetti che vi operano sono 8.429. I disoccupati avviati al lavoro attraverso questo circuito sono in un anno in media circa 33-34 mila. Le Agenzie, invece, hanno una presenza che tocca le 2.606 filiali o sedi, con un numero di occupati diretti che arriva a poco meno di 11 mila unità. Il totale dei disoccupati ai quali viene offerta un’occasione di lavoro ammonta in media a circa 465-470 mila.

Se queste sono le cifre, la riforma delle politiche attive figlia del Jobs Act doveva servire proprio a rilanciare il ruolo dello Stato nei servizi per il lavoro. Ma il riassetto si basava sul presupposto implicito che passasse la riforma costituzionale che limitava i poteri delle regioni. Il referendum ha avuto, invece, esito negativo e il risultato, per cominciare, è che la stessa nascita dell’Anpal è stata zoppa. Per mesi la Conferenza Stato-regioni è stata teatro di litigi paralizzanti tra gli assessori su chi doveva entrare nel cda dell’Agenzia nazionale, su come regolare gli accreditamenti regionali, come pagare gli stipendi degli operatori dei Centri, quanto stanziare per la prosecuzione della garanzia giovani, e via di seguito. E gli effetti si sono visti con il flop della fase sperimentale dell’assegno nazionale di ricollocazione: non più di 2.400 risposte di disoccupati su circa 30 mila lettere inviate.

Gli assessorati al lavoro delle regioni, dunque, hanno ripreso forza in una logica non solo anti-statale ma anche anti-privato. Tant’è che c’è chi, tra gli addetti al settore, racconta di operatori dei Centri di regioni dell’Italia centrale che hanno incoraggiato i disoccupati a non accettare la proposta Anpal per attendere invece le offerte dei servizi locali. Servizi nei quali, come nel Lazio, è incluso un corso di formazione obbligatorio funzionale sono a remunerare gli enti formativi della regione. Ma è lungo l’elenco delle pratiche discriminatorie messe in atto da più di una regione. È eclatante che vi siano regioni che sono arrivate solo da un anno ad applicare la legge (addirittura del 2003) sull’accreditamento degli operatori privati, mosse dall’evidente timore di subire l’accreditamento nazionale unico avviato da Anpal: tra queste l’Emilia-Romagna e l’Umbria (dove l’Albo è in via di istituzione forse solo ora). Per non dire della Basilicata, della Liguria, della Calabria, che sono tuttora all’anno zero o quasi. E comunque, la maggioranza delle regioni ha dato vita a questo canale di servizi privati per il lavoro con oltre 10-12 anni di ritardo. Senza contare la difformità di regolamentazione.

Quando poi viene invocata la collaborazione degli operatori privati con le imprese, come nel Lazio, vengono imposti percorsi di risposta alle richieste delle aziende così lunghi da scoraggiarla. Per tacere dei ritardi nei pagamenti dei servizi prestati. Fino ad arrivare a chi, come l’Emilia-Romagna, stabilisce che nella remunerazione a risultato dell’attività a favore dei disoccupati rientrino i contratti a termine ma non quelli di lavoro in somministrazione: poco importa che siano il passaggio verso un’assunzione stabile. Quello che conta è continuare a contrastare con cavilli il ruolo dei privati: anche a costo di lasciare vacanti posti disponibili.

Claudia Marin, Quotidiano.net