Il calcio va in fuorigioco sul campo di Piazza Affari

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juve roma

Il matrimonio tra la Serie A e la Borsa (ma vale anche per i big dei campionati stranieri, healing calcio inglese in testa) non ha mai funzionato. “I titoli legati al football sono sconsigliati a orfani e vedove», sale aveva predetto nel ’98 Victor Uckmar alla quotazione della Lazio. Da allora per i soci di biancazzurri, Juve e Roma sono arrivate solo delusioni.

di ETTORE LIVINI

Troppo imprevedibili (per definizione) i risultati. Troppo sindacabili – basta pensare a Juve e Roma di ieri – i giudizi degli arbitri. Troppo fragile, almeno in Italia, la gestione manageriale. Risultato: non aveva tutti i torti il giurista Victor Uckmar. Che quando nel 1998 la Lazio imboccò la strada di Piazza Affari si lanciò in una millenaristica previsione: “’Suggerisco di mettere a caratteri cubitali nel prospetto di quotazione questa avvertenza: titoli non raccomandabili a vedove e orfani”.

Il tempo gli ha dato ragione. Le azioni dei tre club di Serie A sbarcati in Borsa – Juventus, Roma e Lazio – si sono rivelati una sorta di ottovolante. Con titoli volatili e scambi ridotti, capaci di decollare o cadere a picco per un fischio arbitrale, un’autorete, l’indiscrezione su un colpo di mercato o una plusvalenza farlocca. Unica costante, buona per tutti, le perdite degli investitori che hanno puntato i loro soldi sul calcio scommettendo in un ritorno a lungo termine: la Roma, che qualche anno fa valeva sul listino 2,95 euro, viaggia ora a 65 centesimi. La Juventus ne quota 23 contri gli 1,35 euro degli anni d’oro, mentre la Lazio – forse il titolo più mozzafiato del settore – passa di mano oggi a 54 centesimi contro i 52 euro dell’era della bolla.

L’Italia, del resto, non è un caso isolato. Certo esistono le eccezioni di piccoli club ben gestiti, capaci di dare soddisfazioni finanziarie che durano nel tempo non solo sul campo erboso ma pure in Borsa. La realtà però è che – con buona pace del fair play finanziario della Fifa – per vincere bisogna spendere una valanga di soldi. E che i capricci dello sport (c’è anche chi spende tanto senza vincer niente) declinati sui mercati generano più incubi che sogni. I vincitori 2014 di Premier League, Serie A e Ligue 1 (Manchester City, Juventus e Psg) hanno cumulato l’anno precedente un passivo di bilancio di 300 milioni.

I bianconeri, ovviamente, scontano gli investimenti per lo stadio destinati a garantire un ritorno a lungo termine. Resta il fatto che con cifre di questo genere in ballo, il football è materia più adatta a sceicchi, oligarchi e nuovi ricchi piuttosto che per piccoli risparmiatori. E non a casa molti dei grandi club del Vecchio continente, anche quelli meglio gestiti, tendono ad evitare l’avventura della Borsa dove la gloria dura poco e i tempi duri molto di più. Gli azionisti del Borussia Dortmund, per esempio, hanno festeggiato lo scorso anno l’ottima stagione della squadra, con tanto di vittoria in Supercoppa e quarti di Champions, con un balzo del titolo da 3,6 a 5 euro. Peccato che solo un paio di anni prima avessero pagato le stesse azioni 10 euro.

“Quotare in Borsa una società di calcio – per dirla con i Della Valle – è quanto di più folle ci possa essere”. A maggior ragione in Italia dove la Serie A ha macinato negli ultimi dieci anni ben più di un miliardo di perdite. Ai capricci universali dello sport, oltretutto, noi siamo capaci di aggiungere il solito contorno di pasticci all’italiana: a Piazza Affari nessuno ha scordato la fantomatica scalata alla Lazio della cordata Chinaglia. Una vicenda finita a carte bollate e processi ma che ha regalato per giorni sedute di passione al titolo degli aquilotti in Borsa. Un precedente che basta a spiegare perchè, da allora, la Consob ha scoraggiato con tutta la moral suasion possibile lo sbarco di altri club sul listino.