GIOCARE NON E’ SEMPRE UN AZZARDO
Un giornalista spiega la bellezza del gioco, purchase che non considera un “vizio”, ma un divertimento. E una risorsa per lo Stato
Giornalista e autore televisivo, regista cinematografico, saggista, romanziere, ma in primis “liberale assoluto”, Cesare Lanza ha la passione del gioco, e non gli va che al gioco d’azzardo s’associ la parola “vizio”. Non ha torto, naturalmente: il gioco non è un vizio, e “azzardo” è un altro modo per dire, senza troppi fronzoli, “condizione umana”. Nel suo libro più recente, questo Elogio del gioco d’azzardo, l’ex direttore di molte importanti testate italiane, dal Corriere d’informazione alla Notte, spiega che il gioco non è soltanto un piacere per chi gioca, almeno finché si gioca «moderatamente» (ma anche smodatamente, in realtà, perché i tifosi degli sport estremi e i tossici da emozioni forti hanno il diritto di spassarsela, a proprio rischio e pericolo, come chiunque altro). Il gioco è anche una risorsa per lo Stato, al quale assicurerebbe, una volta liberalizzato e sottratto alla gestione delle bande criminali, copiosi introiti che oggi vanno perduti, senza contare che i casinò legali attraggono turisti con la fregola delle scommesse e dell’azzardo da tutto il mondo, e ciò significa soldi che piovono dal cielo e nuovi posti di lavoro. Lanza costruisce il suo modello di gioco virtuoso spaziando tra gli argomenti a favore del lancio di dadi come un surfista sulla cresta dell’onda: la chiesa e il lotto, il gioco e l’arte, la letteratura e il gioco, il poker o il biliardo e il cinema, Caravaggio, Cézanne, Goldoni, il giocatore di Dostoevskij. Non avendo mai giocato in vita mia – e nemmeno mai passato l’unghia sulla striscia argentata d’un “gratta e vinci” – è soprattutto al ruolo che il rien ne va plus incarna nell’immaginario che sono più ricettivo, e anche qui Lanza mi fa da cicerone. Consiglio, con l’occasione, anche la lettura d’un libro recente di Marco Dotti, Il calcolo dei dadi, uno studio in lingua filosofica su azzardo e vita quotidiana. Oggi il gioco, che da noi ancora attende d’essere liberalizzato, come scrive Lanza, è a tutti gli effetti sdoganato da un pezzo, poiché «l’onnipervasività dell’azzardo nelle maschere della fnanza e del marketing», come scrive Dotti, «ha trasformato il mondo in un immenso tavoliere e l’uomo nella posta in gioco per il medio del denaro». Insieme al gioco, è tornata la fortuna. Avventura umana. Dopo essere stata a lungo relegata a sorvegliare il bidone di benzina dei passatempi infantili, come il gioco dell’oca oppure il Monopoli, ma soprattutto accusata d’aver provocato con le sue lusinghe la bancarotta e la perdizione dei giocatori compulsivi, come in Cincinnati Kid e nello Spaccone o nell’ Uomo dal braccio d’oro, la fortuna è tornata – grazie ai “gratta e vinci” globali dell’alta finanza – al centro della scena culturale come potenza metafasica, alla quale raccomandarsi, sperando nella sua benevolenza. Gioco e fortuna sono la sostanza di cui è fatta l’avventura umana dalla nascita alla morte, una carta da giocare dopo l’altra, una successione senza fine di dadi da lanciare nell’aria, di palline che corrono nella roulette, di casinò on line. C’è un romanzo fantasy di Tim Powers, molto bello, L’ultima chiamata, dove a Las Vegas si gioca un grande torneo di poker. È un gioco stregato, al quale partecipano necromanti e maestri di magia. Chi vince, vince il trono della Terra desolata, come nei poemi del Graal. Intorno fantasmi, zombie e zaffate di magia nera. Giocare, come vivere, è rischiare l’anima.
di Diego Gabutti
Sette – Corriere della Sera 19 – 07 – 2013