di Cesare Lanza
Dalla Resistenza al Quirinale, il successo con le donne fu una costante della sua vita
Andava in vacanza con papa Wojtyla. A tavola teneva sempre il tovagliolo al collo
Sandrino, per me? Croce e delizia nel mezzo del cammin della mia vita. Croce: perché, negli anni Ottanta, non seppi resistere alla tentazione di andare a dirigere II Lavoro di Genova, il giornale di origine socialista che Pertini aveva guidato per alcuni lustri. L’aspetto sciagurato fu che non rifiutai la proposta di assumermi anche le responsabilità editoriali ed amministrative. Non riuscii a dir di no ad un caro, carissimo amico.
Riuscii a resistere per 4 anni, mi rovinai economicamente, ebbi molti problemi e alla fine fui costretto a ritirarmi. Che c’entra Pertini? Il nodo del Lavoro era semplice: c’erano 100 dipendenti, ne sarebbero bastati la metà. Ma io non me la sentii di tagliare: tutta colpa mia, sia chiaro. Pertini, riempiendoci di emozione, telefonava per dirmi: «Cesare, ti prego, non licenziare nessuno. Sono vecchi compagni, partigiani, lavoratori bravi e onesti, li conosco uno per uno…». Era vero, aveva ragione. Era il presidente, amatissimo, della Repubblica -accidenti! 100 erano i dipendenti e 100 rimasero, quando abbandonai, con le ossa rotte.
Mi è rimasto il ricordo di giorni favolosi e tempestosi, sedevo nello studio in salita di Negro, in cui aveva posato le chiappe il personaggio più popolare del partito socialista italiano, il simbolo della Resistenza. Con la sua effigie nel cuore e a volte anche in mano, giravo alla ricerca di sostegni, per trovare un po’ di spazio di fronte al giornale allora e ancora oggi dominante a Genova, Il Secolo XIX (che avevo diretto, dopo Piero Ottone, una decina di anni prima). Al Quirinale, a fianco di Pertini, lavoravano anche due miei grandi amici, Antonio Ghirelli e Gastone Alecci. La mia soddisfazione (in fondo, sono queste le cose che contano) arrivò quando il presidente si convinse a venire a Genova, in una irrituale visita di Stato, per ricevere l’omaggio del Festival del Lavoro, una manifestazione che avevo organizzato alla Fiera del mare, allo scopo molto concreto di incrementare la diffusione e le entrate pubblicitarie. Pertini fu accolto con entusiasmo indescrivibile, la città (come il resto d’Italia) lo amava per la sua semplicità, la spontaneità. E così arriviamo alla delizia. Se è ingiusto dire che Sandro fu una croce per i miei interessi editoriali, questo singolare protagonista della vita italiana rappresentò una delizia non solo per me, ma per ogni cittadino di buoni sentimenti. Assai più che una delizia! Un riferimento fondamentale contro la corruzione e il mal governo: già, in quell’epoca, di preoccupanti dimensioni e continuamente oggetto di indagini giudiziarie (con amarezza, possiamo dire che oggi, dopo trent’anni, succede molto di più). Era, con raro senso dello spettacolo e un fiuto formidabile, il virtuoso politico che tutti sognavano e continuiamo a sognare: uno come noi, nel linguaggio e nei comportamenti, mai arrogante o incline ai privilegi. Senza macchia, Eletto presidente nel 1978, la prima volta che si trovò a prendere un aereo da Roma per la sua Liguria – era nato a Stella, un paese tristissimo in provincia di Savona nel 1896 – andò a Fiumicino come un viaggiatore qualsiasi, acquistando il biglietto come chiunque altro. Potete immaginare il subbuglio! Gli fecero poi notare che questa scelta comportava costi più alti e affannose improvvisazioni per la sicurezza; e solo così riuscirono a farlo desistere. Era molto cocciuto… imprigionato per volere di Mussolini, si rifiutò sempre di chiedere la grazia e s’infuriò con la mamma che aveva scritto al duce una tenerissima lettera per invocare clemenza. Nel suo rigore, era inflessibile: con se stesso, prima che con gli altri. E così fu il simbolo di valori, onestà e moralità, di cui l’Italia aveva all’epoca, come oggi, un primario bisogno. Lunga e risaputa la sua storia pubblica. Aveva partecipato alla Prima guerra mondiale, poi perseguitato dal regime fascista e condannato una prima volta, nel 1926, a 5 anni di confino. Esule in Francia, anche lì processato per l’attività politica. Torna in Italia nel 1929 ed è condannato a 11 anni di prigione. Nell’agosto del 1943 è catturato dalle Ss e condannato a morte. Evade insieme con Giuseppe Saragat ed è in prima fila nella lotta partigiana contro i tedeschi. Medaglia d’oro. Finita la guerra, una lunghissima carriera politica: dapprima senatore, nel 1948, poi deputato dal 1953 al 1976. Infine presidente della Camera per 4 anni e poi al Quirinale, eletto l’8 luglio 1978, al sedicesimo scrutinio, con 832 voti su 995. Senatore a vita, muore il 24 febbraio 1990. Detesto le celebrazioni, per altro sacrosante nel caso di Pertini, e spero di interessarvi con qualche ricordo. Ad esempio, intuivo e mi fu confermato da Ghirelli e Alecci, che lo adoravano e lo seguivano ogni giorno: il sogno segreto di Sandrino era di congedarsi da questo mondo in modo eroico. Negli anni del terrorismo e delle Brigate Rosse le opportunità indubbiamente c’erano, anche se improbabili, considerando quanto il presidente fosse amato dal Paese intero. E ancora: Pertini si spense nel suo letto a 94 anni, quando aveva notizia della morte di un suo coetaneo, gli si disegnava in volto una strana smorfia.
Non giudicatemi irrispettoso, se insinuo il sospetto che fosse una reazione a metà tra il dispiacere per la perdita e metà per la soddisfazione di essere sopravvissuto. Ricordo poi che Pertini mi sdoganò da un difettuccio proibito dal galateo: stare a tavola, con un bel tovagliolone disinvoltamente a tracolla, per evitare macchie 0 spruzzi di sugo. Sandro si imbavagliava anche di fronte ad alte autorità, in importanti cerimonie; e io da allora faccio lo stesso, anche se i miei convitati non sono di uguale prestigio. Quando ebbi occasione di pranzare con lui, presi anche il capriccio di concludere con un bicchierino di grappa, ma senza aggiungere una zolletta di zucchero, come invece piaceva al presidente. «Sono un galantuomo dal brutto carattere», diceva spesso. «Dovete diffidare di quelli che non sanno arrabbiarsi: covano dentro la rabbia e la rabbia a poco a poco diventa veleno». E straordinario è anche il successo che aveva sulle donne, nessuna esclusa. Sandro non poteva certo essere considerato un fusto della vecchia e nuova politica: forse la sua seduttività era nel carisma, nel decisionismo innato, nei comportamenti sempre chiari e drastici.
L’uomo che decide subito, che comanda, con capacità di osare e prendere iniziative. In occasione della morte di Enrico Berlinguer (11 giugno 1984, a Padova), decise immediatamente di trasportare la salma sull’ aereo presidenziale. «Porto io Enrico a Roma: come un papà, come un amico fraterno, un compagno di lotta». Gli rimproverarono di aver fatto aumentare, con questo gesto, i voti del Partito comunista alle elezioni europee e lui disse a Bettino Craxi e Carlo Martelli: «Vi do un consiglio, tornate a Verona, suicidatevi sulla tomba di Giulietta e io vi porto in aereo a Roma. Vedremo se il Psi aumenterà i voti». Il 12 giugno 1981 aveva lasciato il Quirinale per andare a Vermicino, a seguire il dramma di Alfredino Rampi, 6 anni, caduto in un pozzo. Purtroppo il bimbo morì. La trasmissione in diretta del dolore di Pertini ne accrebbe la popolarità. Ma ci fu anche chi gli rimproverò: la confusione, provocata dalla Rai, la sortita presidenziale aumentò la confusione e non giovò ai tentativi di salvare il bambino. E ancora, l’ 11 luglio 1982, Sandro decise di correre allo stadio Santiago Bernabeu di Madrid dove la nostra Nazionale di calcio si misurò in finalissima con la Germania e vinse 3-1, diventando campione del mondo. Tutti ricordiamo la sua esultanza – era a fianco del re Juan Carlos di Spagna per i goal e la vittoria. Al ritorno in Italia, volle la squadra sul suo aereo e giocò a scopone, in coppia con Dino Zoff, il capitano, contro Enzo Bearzot e Franco Causio (che vinsero). Amava le partite a carte, ma non sopportava di perdere. Un capitolo a parte meritano i rapporti tra lui e Giovanni Paolo II: incontri improvvisi, visite informali, telefonate non convenzionali. Nel luglio 1984, il pontefice telefonò al Quirinale e invitò Pertini ad andare a sciare con lui.
Sandro disse che non sapeva sciare né gli piaceva. E il Papa: «Venga presidente, l’aria buona le farà bene». Detto, fatto: tre giorni dopo passeggiano sull’Adamello e fanno colazione in un rifugio, a 3.000 metri di altezza. E quando Wojtyla fu ferito in un attentato, Pertini si precipitò all’ ospedale Gemelli, fu il primo ad arrivare. Dopo qualche minuto, ecco Flaminio Piccoli con la delegazione democristiana: «Ma come, tu sei già qui?!». «Un uomo affascinante, educato, forte, altruista, generoso, mai una slealtà. Un grande amore.
Un grande compagno», questa è la definizione che Carla Voltolina ci ha lasciato del marito Pertini. Si erano conosciuti a Torino. Carla era più giovane di 25 anni: si sposarono F8 giugno 1946. Carla aveva un carattere indipendente come Sandro, quando il celebre compagno fu eletto presidente della Repubblica, si rifiutò di metter piede al Quirinale, di avere privilegi che non le spettavano e di partecipare a cerimonie ufficiali. Abitava in una casetta di fronte a Fontana di Trevi e con Pertini condivideva le vacanze in un appartamentino a Nizza, 0 in albergo d’estate in montagna, in Val Gardena. Pertini, romantico di natura, ebbe però molti altri amori. Dal carcere scriveva lunghe lettere sentimentali a ragazze che già conosceva e rispondeva anche ad altre, che gli scrivevano in prigionia. Sembra che il suo primo amore fu Rinuncola, amica della sorella. La ragazza è citata in una lettera dal confino nell’isola di Ventotene, nel 1943: il futuro presidente parla con amarezza dei bombardamenti che hanno distrutto mezza Genova. In un’altra lettera alla madre, luglio 1940, parla di Mary: «Bella di una bellezza forte e selvaggia». Ma il più grande amore, che sovrasta ogni altro idillio, fu con Matilde Ferrari detta «Mati». E qui il romanzo s’illumina di una storia particolare, oggi sarebbe un perfetto soggetto cinematografico. Mati aspettò Sandrino, fidanzato ufficiale, per oltre 18 anni, finché Sandro le disse (con motivazioni che non conosciamo) che la storia era finita. Matilde non si sposò mai e continuò ad aspettare il suo amato, anche dopo che Pertini si sposò: non volle mai confidarsi con nessuno, tanto meno raccontare il pur minimo episodio della sua lunga relazione. Mati nel dopoguerra gestiva una farmacia ad Albisola, non distante da Stella, dove Sandro era nato. Morì nubile nel 1986, ottuagenaria, ordinando ai nipoti di non rivelare mai nulla del suo fidanzamento. L’estremo gesto di un amore mai esaurito.
di Cesare Lanza, La Verità