La direttiva europea sul salario minimo prevede, tra le altre cose, l’obbligo di fissare un minimo salariale ex lege nei paesi in cui la copertura contrattuale non supera l’80%. Il presidente dell’Inps, Pasquale Tridico, ha avuto modo di dichiarare in parlamento che l’Italia è sopra il 98%. Forse ha un po’ esagerato, le fonti più accreditate parlano di una copertura al 92%, comunque ben al disopra della soglia che ci obbligherebbe a intervenire.
Il problema è che, secondo il Cnel, la metà dei contrati collettivi non sono rinnovati, e molti di questi contrati hanno dei minimi retributivi molto bassi. Per esempio, il minimo retributivo previsto dal contratto di lavoro domestico è meno di 5 euro l’ora. Decisamente non in linea con l’attuale costo della vita. E poi tantissimi contratti non sono rappresentavi, pur essendo stati firmati da un’associazione sindacale (i cosiddetti contratti pirata) con conseguenti fenomeni negativi di dumping sociale.
Secondo il Cnel, sono privi di rappresentanza circa 600 degli 868 contratti depositati, cioè il 69% (anche se il dato desta qualche perplessità, perché sembra sigillare come genuini soltanto i contratti sottoscritti dalla Triplice). C’è comunque in Italia un accordo generale sulla necessità della razionalizzazione e dello sfoltimento del numero dei contratti. Cosa più facile a dirsi che a farsi, perché la norma costituzionale che prevede il riconoscimento e la regolamentazione dei sindacati non è mai stata attuata per opposizione degli stessi.
Perciò, l’impegno profuso dalle parti sociali nella sottoscrizione di 44 contratti collettivi nel corso del 2022, il doppio di quelli del 2020, insieme agli oltre 434 contratti di secondo livello, che interessano ormai 3 milioni di lavoratori, sembra dimostrare che i rappresentanti dei lavoratori e la controparte imprenditoriale sono ben consapevoli del problema e non intendono essere scavalcati da nessuna forma di salario minimo imposto ex lege, né tantomeno dalla demagogia dei 5 stelle, sempre pronti a soffiare sul fuoco quando si tratta di intercettare consenso politico a basso costo.
Fissare un minimo per legge, per esempio a 9 euro, potrebbe servire a innalzare i minimi non aggiornati, ma anche a innescare una corsa al ribasso, nel senso che una volta fissata una soglia minima legale, questa tenderebbe ad attrarre anche i minimi che sono fissati ad un livello più alto, con la fuoriuscita delle aziende dall’applicazione dei Ccnl (quelli che prevedono minimi superiori ai 9 euro orari), al fine di conseguire (legittimamente) un abbassamento dei livelli dei salari e, quindi, una riduzione del costo del lavoro.
C’è inoltre un problema di equità: se si innalza per legge il salario di un lavoratore, poniamo, da 7 a 9 euro, i colleghi dello stesso, maggiormente qualificati, che attualmente ne guadagnano 10, chiederanno di ripristinare gli equilibri previgenti, con un aumento di almeno due euro anche per loro. Si produrrebbe così un effetto galleggiamento che porterebbe inevitabilmente a un aumento complessivo del costo del lavoro.
Senza dimenticare che i sindacati, al di là delle dichiarazioni da palcoscenico, sono contrari al salario minimo anche perché questo toglierebbe loro potere contrattuale. E questo è forse il motivo principale per cui la contrattazione di primo e secondo livello ha subito una così forte accelerazione.
Il tema dell’innalzamento degli attuali salari minimi è ben presente anche al ministro del lavoro, Marina Calderone che, per esempio, ha proposto più volte la detassazione degli aumenti contrattuali, per aumentare il livello degli stipendi, al palo in Italia da 30 anni, unico paese dell’area Ocse (in Francia, per esempio, nello stesso periodo sono aumentati del 30%). Si è già tentato di inserire questa detassazione come emendamento al decreto bollette, ma alla fine la correzione, per problemi di gettito, non è stata approvata.
Marino Longoni, ItaliaOggi Sette