(di Stefania Miccolis) Non è un classico giallo alla Simenon. “La ladra di piante” (ed. Baldini & Castoldi) della giornalista Daniela Amenta, ha una scrittura piena di aggettivi, vezzeggiativi, dialetto romano “che è una parodia ibrida”, descrizioni, colori – “cielo così bianco, impietoso” “cielo di perle opache”, ”di un indaco slavato, un cielo pesante e bombardato, un cielo violetto, ripassato in candeggina”-, odori – “Puzza di catrame e biossido di Roma”, o di basilico e pomodori nella casa della protagonista, o “di pastorelle e di zuccheri”, oppure dei quartieri romani: “Ecco, questo è l’odore del Tevere. Senti un odore insipido ma pungente, un odore di andato a male e di disfacimento, ma anche un odore di tumulto, di movimento, un odore di flusso instancabile ”. “La ladra di piante” è uno di quei romanzi thriller che si potrebbe leggere all’infinito; l’assassino si scopre, ma anche se non si scoprisse in queste pagine scorre la vita quotidiana di persone come ce ne sono tante, piene di solitudine, prive di affetto, prive di memoria, ipocondriaci, con acciacchi del tempo, con problemi da risolvere, con angosce e sudori, in una Roma che non aiuta, ma ha “con un cuore nero, pungente”, che si odia perché “cialtrona”. “Una città che non ha salvato il proprio fiume, il proprio mare, la propria memoria e se ne casca a pezzi. E se ne compiace di farsi divorare, di mettersi in svendita”.
I tre protagonisti vivono nello stesso quartiere della Roma bene, Monteverde vecchia, che è anche il luogo del delitto. Ma a parte il bar dei dolci e qualche giretto che si fa nelle sue stradine, si esce spesso in periferia -“ la periferia dissennata di Roma che iniziava da Trastevere una fila di parabole e cemento, treni e mattoni si allungava verso viale Marconi. Oltre s’ergeva, sferica e di salnitro, la torre del Gazometro, si vedevano le pendici di Garbatella che, a un tratto, perdeva i toni dei tetti per diventare di acciaio all’Eur. Si vedeva la cappa d’afa Portuense e il verde spento dei platani ad accompagnare il viaggio del Tevere. Città sfacciata” – . Espressione della società attuale, quella che non lascia scampo se non ti aggrappi alle tue passioni, tutto il romanzo, velato da tristezza, è in realtà percorso da una elettricità, una voglia di vivere che piano piano verrà fuori, e si concretizzerà alla fine, con una sorta di rivincita dei protagonisti, una scoperta di un colpevole, e la uscita da Roma, dalla “Caput Immundi”, ”verso il mare”, perché è estate e bisogna allontanarsi anche dallo scirocco che fa sprofondare la città “in un gigantesco vapore”. E tutti cercano la vita, o meglio qui si potrebbe dire la linfa vitale. Perché trattasi di un giallo curioso, che vede a un certo punto anche le piante implicate nella vicenda dell’assassinio…ma le piante, si sa, non fanno del male a nessuno, come chi le cura e dà loro la vita. Le piante sono una consolazione in un mondo insensibile, sono il rifugio in cui andare quando non si hanno più le forze. Per Anna, una dei protagonisti, dai capelli rossi e ricci e piena di lentiggini, sono una “terapia”. Lei è una precaria, la cui “missione” è ridar vita alle piante quasi morte, ladra anomala, una sorta di Robin Hood delle piante, le prende di nascosto, quando nessuno può vederla. Ama le aspidistre, che non vanno più di moda e che prima abbellivano gli androni e i terrazzi dei palazzi romani. Le cura, ma è a se stessa che dà la vita, e conosce, grazie al suo unico amico, Sabino, che ha un vivaio, tutti i trucchi per rianimarle. Nel vivaio va a fare “il suo pieno di bellezza” “a respirare, a imparare, a guardare da vicino la riconoscenza delle creature mute” in quella oasi di pace che non è Roma, perché per quanto bellissima e meravigliosa diventa terribile e odiosa quando si scorda di te. Il suo terrazzo è un “parco miniaturizzato con piante in ogni angolo, piante appese che cadevano come liane, archi verdi fatti con le canne e coperte da fogli variopinti, taniche di olio che contenevano fiori a grappolo esplosivi, piante grasse, talmente grasse che veniva voglia di azzannarle”. Il romanzo coinvolge perché ogni personaggio potrebbe rappresentarti.
I protagonisti piano piano crescono nella loro psiche dopo essere stati ben descritti dall’ambiente che li circonda. Il vicino di casa di Anna, il giornalista Riccardo Valdesi, si nutre di musica; appassionato di jazz e rock’n’roll è stato un grande critico musicale e sarà proprio questa sua passione a ridargli la vita e a farlo uscire da quel ex-lavatoio in cui vive. Di piante non capisce niente, ma vuole entrare nel mondo di Anna, in quel luogo fantastico “selvaggio e nascosto”; ed ecco l’unione di due corpi e due menti distinte, piante e musica: “questa che profuma così tanto e che di sicuro sarebbe piaciuta a Billie Holiday”, “questa che si inerpica e sfida la legge di gravità come le canzoni di Nick Drake” e “Queste Patti Smith in camicia bianca” “E tutte queste spade? Sono i Ramones”-. Riccardo si considera un fallito, vita andata a rotoli, sia quella sentimentale con la moglie, che si è innamorata di un altro, sia quella professionale, da critico di musica si è ritrovato a fare servizi di cronaca nera. È solo, gira con il suo Arpad (uno scooterone 150 che ci mette un po’ per prendere il via), e ci accompagna nella Roma che non gli piace più: “Non sopporto Roma che non è mai riuscita a trasformarsi in una metropoli. Sempre questa insopportabile aria di provincia”, “Non mi piace girare in questa città, mi mette paura perché non la riconosco più. Perché è uno scherzo che non fa ridere”. Fuma le sue ultime sigarette e ha la pancetta che inizia a pronunciarsi per l’età: “ti accorgi […]che ingrassi, proprio tu ingrassi, tu che eri sempre un chiodo”, “E non è il fisico, non solo quello, che cede. È la capacità di nutrire sogni, di alimentare pensieri a lunga gittata. Leggere libri senza occhiali. Sperare”.
Infine c’è il personaggio al quale più ci si affeziona, Lanfranco Spada l’informatore, “il più bravo cronista di Roma”, quello che una volta, piazzato in questura, dava linfa vitale ai giornali, e che ora non esiste più, a cui “non si è allungata la vita, ma la vecchiaia”. “Alto, elegante, la camicia inamidata e quella scia di profumo morbido, persistente […]. Nel taschino un fazzoletto candido e una penna antica, una Montblanc”, ma era “leggermente più incurvato”, “Magro e fragile come un uccellino profumatissimo”. Lui l’affetto lo trova nei suoi amati gatti, Pulci che gli si strofina e non lo abbandona mai, e gli altri che quotidianamente salva dalla strada. Vuole rivalutare il suo quartiere, Monteverde vecchio, dove la villa “un tempo il giardino dei nobili” se la passa piuttosto male, “Fontane senza acqua , piante infestate, scritte, reti divelte e statue decapitate”. A lui ci si affeziona sia perché è una immagine che ci ricorda il giornalismo di una volta, quello emozionante del chi fa prima, del chi sa di più, delle telefonate di corsa (“il giornalismo digitale”, purtroppo “cancella tante emozioni”) , sia perché figura ormai anziana, che si scorda le parole, e della quale non hanno tutti rispetto, ma la sua rivincita la avrà perché sarà lui, la sua mente e il suo istinto e il suo sconfinato amore per i gatti a far scoprire il colpevole. Lui astuto e acuto, non gli sfugge un’espressione, uno sguardo, comprende tutto al volo, lui che non molla la presa e fa arrabbiare il commissario, lui che piange se vede un animale che non sta bene. Di contorno ci sono poi divertenti e romanacci il commissario di polizia, uno che si nutre di dolci, e il direttore del giornale per il quale Riccardo Salvini scrive, che si bea della sua figura e del suo ego.
La lettura del romanzo è piacevole, si possono immaginare tutte le scene visivamente, e il tutto è accompagnato da una colonna sonora, quella che sempre rimbomba nella testa di Valdesi: si ascolta quindi la musica dei Clash, di Lou Reed, Bill Evans, Jimi Hendrix, Patty Smith e tanti altri. Un romanzo in cui si percepiscono influenze dei romanzi del 900, il grande Gadda con quel suo geniale “Pasticciaccio” e l’Italo Svevo psicologo. E si percepisce anche che l’autrice è una grande conoscitrice del suo mestiere, che insieme coltiva piante e coltiva canzoni, in una Roma che lei ama e odia.
STEFANIA MICCOLIS