La centralità mediatica assunta dal tema del salario minimo sta coinvolgendo anche i giudici, con il rischio di trasformare l’argomento in un terreno di scontro politico-istituzionale giocato però sulla pelle dei lavoratori e dei datori di lavoro. Alcune recenti sentenze hanno infatti riconosciuto il diritto del lavoratore a un importo superiore rispetto a quello percepito, scavalcando anche i contratti collettivi di riferimento. I giudici hanno fatto riferimento all’articolo 36 della Costituzione e alle direttive europee. Il primo così recita: “Il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”. Mentre la direttiva europea 2022/2041 prevede che (considerando n. 28): “oltre alle necessità materiali quali cibo, vestiario e alloggio, si potrebbe tener conto anche della necessità di partecipare ad attività culturali, educative e sociali”.
Grandi e nobili principi, ma non suscettibili di essere quantificati volta per volta in un definito mucchietto di euro. Infatti, se chiediamo a cento persone diverse quale dovrebbe essere il salario minimo in grado di garantire una vita libera e dignitosa difficilmente otterremo due numeri uguali. Questi cambieranno in base ad abitudini di vita, desideri, composizione famigliare, luogo di residenza, ecc.. Anche perché, un conto è abitare sulle montagne della Sila e un altro in centro a Milano. E cosa diversa è vivere da solo rispetto a dover mantenere una famiglia di 5 o 6 persone. Inoltre, la Costituzione parla anche di un importo proporzionato alla qualità e quantità del lavoro svolto. Altri due parametri che spingono verso valutazioni del tutto soggettive. Per non parlare della necessità di partecipare ad attività culturali educative e sociale che, se non si vogliono ridurre al mero stare seduti davanti alla tv, possono essere anche molto costose e quanto mai opinabili. Fissare un valore oggettivo in grado di soddisfare i requisiti previsti dalla Costituzione e dalle norme europee è come pretendere di imbrigliare il vento. Anche perché non ha alcun senso fissare un valore della retribuzione in astratto se poi le aziende non sono in grado di pagarlo nel concreto a causa delle condizioni del mercato o del settore di riferimento.
Non per niente queste regole sono sempre state interpretate non tanto come precettive ma come indicatori di una direzione politica, lasciando poi alla contrattazione collettiva il compito di fissare, all’interno di questi argini, il valore concreto della retribuzione minima di volta in volta applicabile. Contrattazione collettiva che in Italia, peraltro, copre oltre il 90% dei lavoratori. E se è pur vero che ci sono alcuni contratti con minimi salariali molto bassi, la cosa più semplice da fare, se non si vuole introdurre un salario minimo per legge (cosa che risolverebbe forse qualche problema, ma ne creerebbe altri, in particolare mettendo in conflitto tra di loro i lavoratori con i salari più bassi) è rimettere in discussione i valori di quei contratti. Molto più semplice ed efficace che non rivolgersi a un giudice. Che, oltre a innescare un procedimento lungo e costoso, produrrà sempre un risultato del tutto opinabile. Forse il problema è che sindacati, giudici, parlamento, anziché limitarsi a svolgere ciascuno il proprio ruolo si impanicano a svolgere quello degli altri. Così i giudici si mettono a fare i sindacalisti, i sindacalisti vorrebbero governare e in parlamento si assiste a uno sporco gioco politico nel quale l’obiettivo non è di trovare una soluzione ragionevole a un problema, ma fare propaganda sulla pelle di lavoratori e imprese, per accaparrarsi qualche voto in più. E la confusione non fa che aumentare.
Marino Longoni, ItaliaOggi Sette