Con Nunzio Alfredo D’Angieri, l’ultimo dandy d’Italia, ambasciatore per gli Affari europei del Belize, non si sa da dove cominciare. Dal patrimonio? Un fondo di famiglia valutato 21 miliardi di dollari, gestito da Warren Buffett, l’«oracolo di Omaha». Dai due sovrani nell’albero genealogico? Secondo la Nuova cronica di Giovanni Villani, stampata nel 1537, i baroni di Francia, deposto Carlo il Grosso, fecero re il figlio di Ruberto conte d’Angieri, Oddo, e in seguito misero sul trono un secondo Ruberto, fratello dello stesso Oddo d’Angieri. Dalle amicizie? Dà del tu a papa Francesco; è stato per 22 anni consigliere, negoziatore e banchiere di Yasser Arafat; era sodale di Fidel Castro; è in corrispondenza con Carlo III del Regno Unito. Dalle residenze? Ne ha a Milano, Londra e New York, più un isolotto privato nei Caraibi. Dal jet personale? Un Gulfstream G450 che brucia 2.114 litri di carburante per ogni ora di volo, 12 posti con letto a una piazza e mezzo. Dal garage? Possiede 101 fra Rolls-Royce e Bentley d’epoca. Dal guardaroba? Allinea 2.302 abiti sartoriali, 2.787 paia di scarpe, 6.700 cravatte.
Dura la vita del nababbo, eh.
«Nababbo io? Chiedo i 20 centesimi di sconto anche al panettiere, così guadagno. Sono appena tornato da Anguilla in classe super economica con Air France».
Ma come? Non ha un aereo suo?
«Usato solo all’andata. Al ritorno l’ho noleggiato ad Angelina Jolie, che volava in Provenza. Quindi ho viaggiato gratis».
Deve aver avuto un’ottima scuola.
«Quella del nonno materno, Nunzio Lonardo. Per lui ero Pupi, da pupo: trovava eccessivi i miei due nomi. Emigrò a Torino da Palermo. Sposò Miriam Levi, ebrea. Nel 1942 la tabaccaia di corso Vittorio lo denunciò ai fascisti. Finì nel carcere di via Asti, da dove riuscì a fuggire. Con moglie e figlia s’imbarcò da Genova verso gli Stati Uniti. La madre di Gianluigi Gabetti, futuro braccio destro di Gianni Agnelli, diede a mia nonna un passaporto falso intestato a Rosa Varesio».
«A New York la nonna finì nel ghetto, il nonno a Brooklyn. Poi partì per l’Honduras britannico, l’attuale Belize. Vendeva mogano. Amico degli eredi di Pierre-Gabriel Chandon, nel 1952 portò in Brasile l’omonimo champagne. È il motivo per cui oggi abbiamo in portafoglio lo 0,89 per cento della Lvhm di Bernard Arnault, proprietaria del Moët & Chandon».
«Vari interessi. Stimo molto Carlo Messina, consigliere delegato e ceo di Intesa Sanpaolo. Buffett sostiene che è il miglior banchiere d’Europa. Ha ragione».
«Vari interessi» suona generico.
«Ho rilevato la cineteca della Lantern entertainment che apparteneva al produttore Harvey Weinstein, condannato per reati sessuali. Comprende 277 film, fra cui Bastardi senza gloria, Django Unchainede The Hateful Eight di Quentin Tarantino. Ho comprato per conto di Francis Ford Coppola il Palazzo Margherita di Bernalda, in Basilicata. Sua figlia Sofia mi ha fatto recitare in Somewhere».
Quanti passaporti diplomatici ha?
«Negli anni passati al fianco di Arafat ero arrivato ad averne sei».
Suo nonno tornò a vivere in Italia?
«Mai, benché da New York vi avesse mandato in piroscafo mia madre, affinché mi partorisse a Torino, in piazza San Carlo 2. Una volta dall’aereo gli indicai le coste italiane: girò lo sguardo dall’altra parte. Non dimenticava il tradimento».
È cresciuto nella città piemontese?
«Sì. Dalla prima elementare alla terza media ho frequentato l’Istituto Sociale, che è dei gesuiti. Ecco spiegata la confidenza con papa Francesco. Quando fu incoronato pontefice, il premier anglicano del Belize mandò me. Gli dissi: padre Jorge, Santità, ho davanti un miracolo. Si stupì: “Perché?”. Risposi: Dio è arrivato prima dei cardinali, altrimenti non ti avrebbero mai eletto. Scoppiò a ridere».
E dopo le scuole dai gesuiti?
«Collegio Rosenberg a San Gallo, in Svizzera. Fui messo in camera con Mustafa S., un arabo. Mi laureai in legge alla Boston University. La nonna mi trovò un posto a New York, nello studio Pavia, che aveva 150 avvocati. Un giorno mi spedirono in Libia a concludere un contratto per la Texaco. E chi trovai ad attendermi all’aeroporto di Tripoli? Mustafa. Baci e abbracci. “Devi venire con me”. Con un jet privato mi portò in Libano. A Beirut, in un bunker, mi presentò Arafat. Il leader dell’Olp portava sulla testa un colbacco, anziché la kefiah. “Benvenuto, figlio”, mi accolse. Il mio amico era diventato il suo capo di gabinetto».
Che cosa voleva da lei Arafat?
«Mandarmi a Riad da re Fahd perché sostenesse la causa palestinese con il petrolio. “Da oggi puoi caricare 1 milione di barili al mese, sconto del 25 per cento”, mi annunciò il re d’Arabia. Erano 160 milioni di litri. Per 22 anni ho riempito una petroliera al mese. Vendevo il greggio perfino alla Saras dei Moratti. L’avrebbe voluto anche Saddam Hussein».
Come mai non glielo forniva?
«Gli americani mi avrebbero incenerito. Il dittatore iracheno la prese malissimo. Si tolse dal polso l’orologio e me lo scagliò addosso: “Ti ricorderai di me!”. Lo conservo. È un Breitling che sul fondello reca inciso “Iraqi air force”. Lo dava in dotazione all’Aeronautica militare».
Che altro fece per Arafat?
«Trattai con Yitzhak Rabin e Shimon Peres le modalità del premio Nobel per la pace, concesso a tutt’e tre nel 1994. Ero con Arafat in albergo a Stoccolma prima della consegna. Scendemmo con 22 minuti di ritardo perché non voleva rinunciare alla pistola. Gliela tolsi dalla fondina, me ne feci dare altre due dalla scorta, gliele nascosi sotto la divisa e consegnai la sua arma agli uomini del cerimoniale. “Resti il solito ebreo”, ridacchiò».
Lei ebbe un ruolo anche a Sigonella.
«Mediai con Giulio Andreotti e Bettino Craxi nella crisi innescata dal dirottamento dell’Achille Lauro a opera di Abu Abbas, costato la vita a Leon Klinghoffer. E portai Arafat da Gaza in Vaticano a congedarsi da papa Wojtyla. “Vengo a salutarla per l’ultima volta”, esordì. “Ariel Sharon mi farà uccidere”. E così fu. Giovanni Paolo II aveva gli occhi lucidi».
Quando ha avuto per la prima volta la netta percezione di essere ricco?
«Sono gli altri a pensarlo, io no».
Senta, ma a che le servono tutte quelle auto da mezzo milione di euro l’una?
«Valgono molto di più. Ho comprato una sessantina di Rolls-Royce e una quarantina di Bentley e le ho fatte restaurare. È un mercato in crescita. Il pezzo forte è una Rolls Silver Wraith del 1957, con minibar in radica e interni personalizzati da Hermès, la maison preferita di mia moglie Wendy, console generale del Belize a Milano. Riprende il colore giallo della boutique di via Montenapoleone. Avevo anche la Jaguar del dittatore cubano Fulgencio Batista, ma l’ho donata al Museo de la Revolución dell’Avana».
«Me la regalò Fidel Castro, il più magnetico capopopolo che abbia mai conosciuto. Mi concesse il monopolio su sigari e vaccini cubani in Sudamerica, tranne l’Argentina, dove l’esclusivista era Juan Martín Guevara, il fratello minore del “Che” detenuto per otto anni durante la dittatura del generale Jorge Videla».
Conosce Carlo III del Regno Unito.
«Ovvio, è il sovrano del Belize. La prima volta lo incontrai nel 1986, grazie a una partita di polo in Inghilterra: la regola impone che lì si possa disputarla solo se hai in squadra almeno un britannico. Intrattenevo rapporti con Ronald Ferguson, padre della principessa Sarah. “Ci penso io”, mi tranquillizzò. E ci trovò il compagno di gioco: il prince of Wales».
Adesso lei e Carlo vi scrivete.
«Mi sono scusato per lettera quando gli ho regalato un ombrello con il manico di bambù uguale al mio, fatto a mano da Mario Talarico, artigiano di Napoli».
«È in tessuto blu. Colore poco reale. Ma detesto il nero. Ho 20 smoking, tutti blu, o al massimo bianchi, verdi, marron, viola. E cinque frac blu navy. Non voglio essere scambiato per un cameriere».
Evita anche le calze di colore blu?
«Certo. Sono fucsia. A Parigi le produce per me Charvet di place Vendôme».
Posso sapere quanto pesa?
«Sui 100 chili. Da campione di polo ero 57. Quindi ho abiti di tutte le taglie».
«Mi vesto a Torino. Un tempo era il siciliano Salvatore Collura, purtroppo scomparso. Oggi è Daniel Robu, un fuoriclasse romeno. Ho promesso a re Carlo III di presentarglielo. Ha una sartoria sociale, dove lavorano molti stranieri. Dà un futuro agli immigrati».
Noto che tiene slacciato l’ultimo bottone sulla manica della giacca.
Chiesi a Giovanni Nuvoletti, marito di Clara Agnelli, un giudizio su coloro che hanno questo vezzo. Mi rispose: «Meschinetti. Se il sarto ha sbagliato le misure, si facciano allargare la manica».
«Frequentavo Gianni Agnelli. Sul polso teneva slacciati due bottoni su tre».
Sa dirmi che cos’è l’eleganza?
«Trovarsi bene con sé stessi. Il maggiordomo la mattina mi stira i giornali, sennò l’inchiostro sporca le lenzuola».
Destina qualcosa in beneficenza?
«Molto. Ogni anno organizzo un pranzo per 300 poveri e servo in tavola. Papa Francesco mi ha detto: “Guarda che hanno già le mense. Tu devi dargli da mangiare bene!”. Perciò chiamo a cucinare Filippo La Mantia e altri chef famosi».
«Super felice. Però ho sempre davanti agli occhi una scena vista a Gaza: una palestinese costretta a partorire sull’asfalto a 50 metri dall’ospedale. Gli israeliani le avevano impedito di raggiungerlo».
di Stefano Lorenzetto Corriere della Sera