(di Tiziano Rapanà) Ora risorgono i templi. E menomale. Ce ne vorrebbero mille di Vinitaly, per il bene che si fa al settore vitivinicolo. Epperò mi chiedo: e le case? Qui non si vuole fare retorica sulla divulgazione. Che poi la retorica è sempre una retorica del dopo (dopo l’amore -“ti è piaciuto? È stato bello?”, dopo la chiusura del sipario con i soliti complimenti riverenti al capo comico in camerino, dopo il matrimonio – sia nella fine dello sposalizio, quando è il tempo dei confetti, sia nella fine delle cose). Io quando dico divulgazione, intendo la diffusione di una cultura del vino che deve essere patrimonio di tutti. Si dovrebbe andare di casa in casa per raccontare, spiegare. I tempi delle vacanze sono perfetti per la conoscenza della materia: per poter maneggiare il bere, evitando l’abuso. Perché il solo pronunziare, nella penombra di una giornata uggiosa che restituisce l’imprevedibilità dell’estate, la parola Verdicchio – così d’emblée ad un discorso inutile per intrattenere i commensali – dica qualcosa. Perché è giusto conoscere i vini più noti della propria provincia d’appartenenza. Perché questo siamo noi: individui legati al cibo e al vino e alla terra che ci ha dato tutto. Il resto è orpello che non è verso da enjambement, non continua alla riga successiva. E tutto punteggiatura e quindi tutto legato alla superficie del quotidiano più scorbutico, quello che ti ricorda che c’è una sveglia che suona e il traffico che impera e le fatidiche ore di lavoro. Che racconti la storia e cultura del vino nei quartieri e nei porticati dei condomini, le associazioni di categoria offrano questa possibilità di apprendimento.