Nel Mezzogiorno la ripresa occupazionale verificatasi nel 2022 è stata “di bassa qualità, alimentandosi all’aumento della precarietà”. È quanto emerge dal Rapporto Svimez 2022, giunto alla sua 49esima edizione, presentato alla Camera dei deputati.
L’occupazione – sottolinea l’indagine- è tornata sui livelli pre-pandemia, in anticipo rispetto al Centro-Nord attestandosi su livelli comunque inferiori rispetto al 2008 (–2,9%), al contrario di quanto avvenuto nel Centro-Nord (+2,6%). L’occupazione (media dei primi due trimestri), cresciuta in Italia del 3,6% (+791 mila unità) nel 2022, rispetto alla prima metà del 2021, ha premiato soltanto i maschi con un +0,2%, a fronte di un moderato calo dell’occupazione femminile a–0,8%.
Nel 2021 la quota di lavoratori dipendenti impegnati in Italia in lavori a termine da almeno 5 anni (che include quelli con contratto a tempo determinato e i collaboratori) si è attestata al 17,5% del totale dei lavoratori a termine. Il fenomeno della precarietà “persistente” – fa notare il rapporto – non è tuttavia omogeneo su base territoriale. Nelle regioni del Mezzogiorno si raggiunge il valore massimo di quasi un lavoratore su 4 (23,8%, ma in calo di un punto percentuale rispetto al 2020), quasi 11 punti in più della quota che si registra al Nord (13%) e superiore di oltre 7 punti a quella del Centro. Tutto questo – spiega Svimez – si traduce in una maggiore difficoltà delle persone a fuoriuscire dalla condizione di precarietà: nel 2020, ultimo anno disponibile, la quota di occupati precari (a termine e collaboratori) che a distanza di un anno trovavano un’occupazione stabile era al Sud particolarmente bassa, pari al 15,8%. Il valore nazionale era del 22,4%, salendo al 26,9% al Nord. Più precari e più a lungo, in sintesi: ciò si traduce in una maggiore percezione di insicurezza del lavoro nelle regioni meridionali.
Secondo il Rapporto, cresce il fenomeno del lavoro povero: nel 2021 gli occupati dipendenti extragricoli privati con bassa retribuzione (inferiore a 10.700 euro) erano in Italia 3,2 milioni, di cui 2,1 milioni al Centro-Nord (il 18% degli occupati) e 1,1 milioni al Sud, ben il 34,3% degli occupati.
Svimez fa poi notare che l’inflazione rimane al di sopra della crescita salariale negoziata per il 2022, continuando a erodere i salari reali nel corso dell’anno. Tra il 2008 e il 2021 le retribuzioni lorde in termini reali si sono ridotte di circa 9 punti al Sud e di circa 3 al Nord. Il rischio di una spirale inflazionistica salari-prezzi – osserva Svimez – è molto contenuto, tanto è vero che i salari reali sono previsti in calo. Le riforme strutturali degli ultimi decenni hanno creato condizioni mediamente più sfavorevoli agli adeguamenti salariali. A ciò si aggiungono, in Italia, alcune peculiarità del mercato del lavoro che tendono a ostacolare ulteriormente la revisione al rialzo dei salari: l’ampia diffusione dei contratti atipici e, per le forme più stabili di impiego, la lunga durata dei contratti; il riferimento a previsioni di inflazione al netto della variazione dei prezzi dei beni energetici importati; la ridotta diffusione di clausole di rinegoziazione degli aumenti qualora l’inflazione effettiva superi quella programmata.Il Rapporto sottolinea poi che “è netto il divario tra i tassi d’occupazione femminile del Mezzogiorno e del Centro-Nord, che in termini di numero di occupati si quantifica in 1,6 milioni (nel senso che se il tasso di occupazione femminile fosse uguale a quello del Centro-Nord, nel Mezzogiorno l’occupazione femminile aumenterebbe di 1,6 milioni)”.
In Italia sono circa 4 milioni, di cui circa 1,8 milioni nel Mezzogiorno, le donne più o meno vicine al mercato del lavoro ma che non vengono impiegate. Il labour market slack in Italia raggiunge livelli ben più elevati della media europea e aumenta decisamente dal 2008, in controtendenza con il dato europeo. La peculiare carenza di domanda di lavoratrici nelle regioni meridionali è resa manifesta da valori intorno al 50% dell’indicatore, a evidenziare che solo la metà delle donne potenzialmente disponibili a lavorare trovano occupazione. Per le donne, i problemi familiari sono tra le principali cause di dimissioni volontarie: nel 2020 oltre il 77% delle convalide di dimissioni di genitori di figli tra 0 e 3 anni è ascrivibile alle donne. Sul totale delle convalide la dichiarazione più frequente è la difficoltà di conciliare occupazione ed esigenze di cura della prole, sia per carenza di servizi di cura, sia per difficoltà a organizzare il lavoro. In tutte le circoscrizioni si registra una spiccata prevalenza delle convalide relative a lavoratrici madri, che rappresentano il 93% nel Mezzogiorno e il 72% nel Nord. Il volume di spesa pubblica utilizzata dai Comuni per gestire e per finanziare i servizi per la prima infanzia ha seguito un trend crescente fino al 2012, per poi restare sostanzialmente invariato. La spesa pro-capite esibisce un trend continuamente crescente per effetto della riduzione del bacino d’utenza connesso al calo demografico. La spesa media è salita da circa 550 euro nel 2004 a poco più di 900 nell’ultimo anno, riproponendo e accentuando gli squilibri territoriali in termini di strutture: la spesa per bambino residente di 0-2 anni è 883 euro al Nord-Ovest, 1.345 euro al Nord-Est, 1.526 euro al Centro, 308 euro al Sud e 429 euro nelle Isole. “Pur non essendo necessariamente una garanzia di qualità dell’offerta – osserva Svimez – la spesa è un presupposto necessario perché si possano avere una diffusione adeguata e standard qualitativi elevati, senza gravare in maniera eccessiva sulle famiglie. I nidi e i servizi integrativi, del resto, sono servizi a elevata intensità di personale, per cui è difficile coniugare costi contenuti con elevati standard qualitativi e con un’ampia accessibilità per tutti gli strati sociali.