Pur di liberarsi dei tanti tronchi di alberi abbattuti dalla tempesta Vaia nell’ottobre del 2018 si è preferito persino cederli gratuitamente ad aziende cinesi che se li sono venuti a prendere. Allora le quotazioni del legno erano ai minimi. Oggi sono ai massimi. Addirittura il prezzo del legname da opera, esempio per l’edilizia – effetto anche del superbonus – è aumentato del 60 per cento in un solo anno. La nostra industria del legno-arredo è leader mondiale. Ha una bilancia commerciale attiva di circa 10 miliardi. Ma importa l’80 per cento della materia prima di cui ha bisogno. Una fattura di 3 miliardi. Pesante e imbarazzante.
Panorama
L’Italia, nonostante gli incendi che hanno tristemente segnato questa estate e distrutto un’area verde pari alla superficie di Roma, Napoli e Milano messe insieme, ha un immenso patrimonio boschivo. Cresciuto del 20 per cento negli ultimi 30 anni. Non lo sa, tranne rari casi, curare. Non lo sa, in quasi tutti i casi, sfruttare al meglio. Non è vero che sia un legname di qualità inferiore rispetto a quello del Nord Europa, come ha recentemente riconosciuto il Comitato europeo di normazione (Cen). Dati che ignoriamo (colpevolmente) mentre nel dibattito pubblico ci si inebria di buone intenzioni sulla sostenibilità ambientale e sulla necessaria riduzione delle emissioni climalteranti. Gli oltre 11 milioni di ettari di foreste italiane, circa il 36 per cento del territorio italiano, «sottraggono ogni anno dall’atmosfera — si legge in un rapporto di Symbola, di cui è presidente Ermete Realacci — circa 46,2 milioni di tonnellate di anidride carbonica».
«Una gestione avanzata dei boschi — è scritto ancora — può migliorare del 30 per cento l’assorbimento del CO2. Inoltre se aumentassimo l’utilizzo del legno in tutti gli edifici pubblici (50% modello francese), si avrebbe per ogni chilogrammo di legno impiegato una riduzione media di 1,2 chilogrammi di carbonio, dovuto al mancato utilizzo di materiali carbon intensive come cemento e acciaio».
Nell’ambito della Strategia europea per la biodiversità, dovremo poi piantare 200 milioni di alberi entro il 2030. Sono molte le aziende che per compensazione (e per lavarsi la coscienza ecologica) lo fanno all’estero (chi mai controllerà?). Ma forse dovremmo prima tutelare al meglio le aree verdi della nostra Penisola, salvaguardare il «polmone» nazionale. Con maggiore senso civico (troppi rifiuti sui sentieri, troppe aree abbandonate) e un approccio pragmatico. Una foresta la si conserva se la si sfrutta, non se la si abbandona agli eventi naturali.
Economia circolare
Quel vento di Vaia, con raffiche anche oltre i 200 chilometri, ha falcidiato, nell’autunno di tre anni fa, abeti rossi, i più fragili, ma anche pini, larici, faggi. Interi ecosistemi sono stati sconvolti. Le comunità hanno reagito bene. Le valli mostrano ferite ancora aperte, dolorose, squarci in territori bellissimi, ma l’opera di rimozione e di ripristino è confortante. In alcune località senza soste. Sensibilità diverse, però. Nella sola regione Veneto, l’85 per cento del legname è stato venduto e la metà già rimossa. Ma ovunque, pur con rare eccezioni, si è constatata la debolezza industriale della filiera della lavorazione del legno pressoché priva di aziende con dimensioni tali da assicurare un pronto intervento con mezzi tecnologicamente adeguati (come per esempio quelli che raccolgono i tronchi e segano i rami).
Il risultato drammatico, anche per la nostra immagine nazionale, è stata la richiesta di aiuto, ovviamente non disinteressato, rivolta agli operatori esteri, austriaci, sloveni e tedeschi. In particolare, quelli dei Paesi confinanti. In molti casi gli stessi che ci vendono poi la materia prima. Un corto circuito desolante, persino umiliante. Un ulteriore paradosso è costituito dal fatto che anche nel legno l’Italia è una potenza dell’economia circolare.
Il 93 per cento dei pannelli truciolari sul mercato è costituito — sempre secondo il citato rapporto di Symbola, Coldiretti e Bonifiche Ferraresi — da legno riciclato. Se riciclassimo il nostro legno, anziché quello degli altri, saremmo anche in questo settore un’eccellenza internazionale. Perché lo siamo in diverse attività agricole (esempio la più alta produzione di frutta pro capite al mondo) e non nella silvicoltura? «È incredibile — nota Guido Milazzo, partner di Bluebiloba, spin off dell’Università di Firenze, specializzata in servizi per la selvicoltura di precisione — la mancanza di un anello di congiunzione tra le proprietà forestali, troppo frammentate e persino indefinite, e l’industria del legno-arredo. Ma è il risultato amaro di decenni di abbandoni e di spopolamenti delle aree interne. Non esiste un’economia di scala.
Piattaforme
Noi siamo una specie di Airbnb dei boschi. La piattaforma Forestsharing.it si propone di consorziare le proprietà, favore e una gestione attiva e responsabile del territorio. Chi ha solo pochi ettari oggi non ha convenienza a farlo e se non puliamo i sottoboschi è come aver disseminato tante molotov». Il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) prevede l’istituzione di 30 grandi green communities nei territori rurali e di montagna, con lo scopo di «sfruttare in modo equilibrato le risorse principali di cui dispongono» e soprattutto assicurare «la gestione integrata e certificata del patrimonio agro-forestale». L’articolo 35 del Decreto Semplificazioni prevede la «realizzazione di interventi e di progetti volti allo sviluppo di filiere forestali e alla valorizzazione ambientale e socio-culturale; promuove sinergie tra coloro che operano nelle aree interne sia in qualità di proprietari o di titolari di altri diritti reali o personali sulle superfici agro-silvo-pastorali sia in qualità di esercenti attività di gestione forestale e di carattere ambientale, educativo, sportivo, ricreativo, turistico o culturale».
Accordi
Ma soprattutto rende possibili gli accordi di filiera, «senza i quali — è l’opinione di Angelo Luigi Marchetti, presidente di Assolegno — una pianificazione del territorio è impossibile. Bisogna agire su ampie superfici. Solo così si recuperano le aree marginali. Sarà più facile, almeno sulla carta, identificare le proprietà, creare accessi per le operazioni di taglio e di esbosco. Si aggiunga che circa un terzo della produzione italiana è costituita solo legno da ardere». I progetti Molte sono le iniziative per valorizzare le specie autoctone (come il faggio). Si lavora anche, insieme al ministero dell’Agricoltura, retto da Stefano Patuanelli, a una vera e propria Borsa del legno. Ma abbiamo bisogno di aziende più grandi e tecnologicamente più a avanzate. «Un nanismo industriale che frena l’intera filiera del made in Italy — commenta Claudio Feltrin, presidente di Federlegno-Arredo — ora abbiamo l’occasione e gli strumenti per guardare al patrimonio boschivo italiano con sensibilità ecologica e insieme interesse economico. Non c’è alcuna contraddizione. Se si può accedere, tagliare, selezionare si guadagna e, nello stesso tempo si tutela il territorio, proteggendolo dagli incendi. In Italia tagliamo solo il 15 per cento di quello che cresce ogni anno. Abbiamo il tasso di prelievo più basso d’Europa. In alcuni casi, all’estero, si supera il 60 per cento. In Paesi che hanno un’immagine verde migliore della nostra. Come l’Austria per esempio, dalla quale compriamo l’80 per cento delle nostre importazioni. Taglia più di noi, sfrutta più di noi e guadagna più di noi. Un paradosso molto costoso».
Ferruccio de Bortoli, corriere.it