Sanguigno e passionale, crapulone e fazioso, collezionò oltre 30 amanti. Personalità complessa dal carattere insopportabile
(di Cesare Lanza per LaVerità) Ci sono poesie anche per me indimenticabili di Giosuè Carducci (lui preferiva che il suo nome fosse citato senza accento), ma sarei un grande bugiardo se aggiungessi che fu, a scuola e anche dopo, tra i miei preferiti. Da Carducci (Valdicastello, Lucca, 1835 – Bologna 1907) mi tengono lontano la sua spocchiosa alterigia e i cento, piccoli e grandi, vizi e difetti. Era molto goloso, e questo certo non mi induce ad antipatizzare. Si sa che amava la buona cucina, restano famose le sue «ribotte», esagerate ed enormi, che organizzava con gli amici di Castagneto. Con una forte passione per i tordi, il pesce fritto e le fettuccine con l’abbacchio. Tra una portata e l’altra c’era anche il tempo per commentare, recitare e discutere le poesie. I pranzi cominciavano la mattina per finire la sera. In alcune sue righe scritte da Napoli leggiamo: «Tutti i giorni mangio dodici ostriche e bevo una bottiglia e mezzo o due di Posillipo o di Vesuvio, con un piatto di pesce o di carne, maccheroni e frutta e non altro». Ovviamente non poteva mancare il vino, Giosuè era un grande bevitore: si faceva pagare la sua collaborazione alla rivista Cronaca bizantina con qualche barile di Vernaccia. All’interno di un’osteria di Desenzano del Garda fu murata questa lapide: «Qui Giosuè Carducci, nei mesi di luglio e ottobre, degli anni 1882-85, spesso libero da scocciatori, per sedare l’ardore dello spirito, per sciogliere l’amaro degli affanni, per temprare il vigore e la grazia, ilare e di buon umore attingeva dai vini vigore e grazia». Buon umore? Mah! O era una fandonia gentile, o era vero ma il merito spettava ai litri di vino, che beveva esaltandone, come tutti i bevitori, le esclusive e particolari qualità. E dedicò tantissimi versi al vino, al punto da aprire un dibattito, in corso ancor oggi, su quale fosse la sua bevanda alcolica preferita. Dicono che fosse il gin italiano, nello specifico la «Gineprina d’Olanda Imea», prodotta da Fulvio Piccinino, il massimo storico italiano del vermouth e degli spiriti di casa nostra, con una ricetta del 1896. Oltre alla passione per il vino c’era quella, irresistibile, per le donne. Perché collezionò più di trenta amanti. E dopo oltre tredici anni di matrimonio e qualche figlio insieme con la moglie, lui smarrì la testa per un’altra donna e non per una delle sue solite amanti di passaggio, ma per tale Carolina (con la quale andrà avanti per dieci anni). Con lei proverà la passione vera, quella che «abbrucia e non dà pace». Una relazione di cui la moglie Elvira confiderà ad alcune amiche: «Come se qua a Bologna non ci fossero abbastanza puttane. Uno di questi giorni, però, se mi gira le faccio la posta e metto le carte in tavole». Anche per queste passioni non mi sento di giudicare (non avendone credibilità), ma – ripeto non mi piace affatto il
caratteraccio. Gli si possono accordare queste attenuanti: autocritica e spietata sincerità. Egli stesso infatti si descrisse così: «Sono superbo, iracondo, villano, soperchiatore, fazioso, demagogo, anarchico, amico insomma del disordine ridotto a sistema; e mi è forza fare il cittadino quieto e da bene». La sua opera raccolse consensi e anche aspre, ostili, durissime
critiche.
Sanguigno e passionale nella vita sentimentale, nella quotidianità fu un saggio amministratore, pignolo e abitudinario. Grande poeta civile, sfoggiava con autorevolezza la sua immagine professorale. Era insopportabile con tutti i suoi studenti, perfino con il prediletto Giovanni Pascoli. Se era di cattivo umore, bocciava tutti, uno dopo l’altro, senza pietà. Guido Davico Bonino, parlando di Giosuè, sottolinea come abbia pesato lo stereotipo, da lui stesso creato, di «poeta vate» che s’incarna nella figura del laico repubblicano che tuona contro i potenti e parla di rivoluzioni impossibili. In questa unità si è lasciato da parte il poeta «tribuno» e si è attinto dalle Odi barbare (1889) e da Rime e ritmi (1899), in cui Carducci, raccolto nell’intimità, ripensa con malinconia ai cari scomparsi, nel desiderio di un sereno trapasso. Certo aveva una personalità complessa, hanno scritto, in bilico tra scatti immediati e una lirica nostalgica. In lui sono presenti sentimenti di rancore e di aggressività, riscontrabili, di frequente, nelle sue lettere. Tuttavia, sono proprio queste esternazioni che
fanno di lui un personaggio sincero: descrive nella totale verità i propri sentimenti: un esempio possono essere gli ardori politici, ideologici, intellettuali, oppure sentimenti privati, relazioni amorose, amicizie. È possibile osservare un’altra faccia di Giosuè Carducci, quella malinconica: l’insegnante battagliero si isola dal contatto con gli uomini, si chiude in sé
stesso, a instaurare un rapporto con i morti, a riportare alla mente il passato con nostalgia della giovinezza perduta. Ma torniamo alle scappatelle e agli amori di Giosuè, al suo complicato e turbolento rapporto con il mondo femminile. Protagoniste, tra tante: l’amante Carolina Cristofori Piva, l’amante Annie Vivanti, perfino la regina Margherita. Giosuè era sposato dal 1859 con la cugina Elvira Menicucci, dal 1871 amante di Carolina, la Lidia delle Odi barbare. Poi come Dafne Gargiolli, Adele Bergamini, Silvia Pasolini. Infine, già ultrasessantenne, la giovane e spregiudicata Annie Vivanti. Rapporti intensi e complicati. E non sono in pochi a riconoscere che questo complesso confronto del poeta con il mondo
femminile sia stato anche tra le maggiori influenze e fonti di ispirazione per la sua opera.
«Giosuè Carducci si è sposato nel 1859», racconta Marco A. Bazzocchi, docente di Letteratura italiana presso l’Alma Mater, «ma per tutta la vita ha avuto rapporti con una serie di donne che hanno segnato profondamente non solo la sua biografia, ma anche la sua opera. Le lettere di Carducci a Carolina Cristofori Piva sono vere e proprie opere di letteratura. E lo sono anche le missive scritte più tardi ad Annie Vivanti». Bazzocchi si è soffermato sulla figura, più oscura, della regina Margherita. «In occasione della visita a Bologna dei regnanti Umberto e Margherita, nel 1878», spiega «Carducci scrisse un’ode per la regina. Pochi anni dopo, nel 1881, scrisse l’opera Eterno femminino regale che parlava nuovamente di Margherita. A quel punto, Carolina Cristofori Piva era morta da poche settimane. Anche alla luce dei carteggi lasciati dal poeta, la mia ipotesi è che Carducci vedesse nella regina la figura di Carolina. Un amore trasposto, dunque. Un sottolineare il mito della bellezza come fondamento non solo poetico, ma anche politico. Margherita come icona per un nuovo inizio della Storia italiana». I tre viaggi a Perugia (1876-1877) avrebbero rappresentato una opportunità per il poeta per incontrarsi, lontano da occhi indiscreti, con la sua amata Carolina, moglie di un generale garibaldino. I due si erano conosciuti qualche anno prima, tra il 1871 e il 1872 in un caffè di
Bologna grazie all’amica comune Maria Antonietta Torriani. La loro appassionata e clandestina storia d’amore si chiuse sette anni dopo (nel 1878). Tuttavia quando «Lidia» morì, stroncata dalla tisi il 25 febbraio 1881, ad assisterla amorevolmente, sino all’ultimo respiro, al suo capezzale accorse di nuovo Giosuè. Ebbene, sulla scorta delle lettere intercorse tra i due amanti (ne risultano 578; il poeta ne ha vergate, nel complesso, circa 10.000 raccolte in ventitré libri) sarebbero invenzioni di sana pianta i particolari degli incontri umbri dei focosi amanti (Giosuè chiamava l’amata «Ebe divina», «angelo» e persino «dolce pantera», mentre riservava alla moglie la definizione più soft di «dolce bestiola»). Carducci – piccolo di statura, agile, svelto, gli occhi vivaci e irrequieti, animatissimo nell’eloquio, anche se appariva burbero e scontroso – era considerato dai suoi contemporanei un vero e proprio tombeur de femmes. Carducci però era anche pazzamente geloso!
Qual era il segreto della forte carica seduttiva della Lina Cristofori? A vederla non sembra la classica femmina fatale…. In realtà già tra i contemporanei c’era chi giudicava Lina non bella o addirittura brutta, ma che Carducci impazzisse è dimostrato con certezza dalla rovente passione per lei di cui Giosuè inonda tante sue lettere. E certamente da lei sono stati molto attratti non pochi altri uomini, scatenando le furibonde gelosie di Carducci. Sembra certo quindi che fosse una donna che aveva e sapeva
far valere un potenziale erotico molto forte, insomma una grande amatrice. Ma al di là di ciò, e nonostante che abbia forse avuto qualche avventuretta, Carducci era per Lina il vero grande amore che ebbe fine solo con la morte. E inoltre il grande potere che esercitava su Giosuè derivava anche dal fatto che era donna colta e raffinata e sapeva comprendere la sua poesia
come pochi in Italia. Di «scappatelle» Giosuè ne avrebbe fatte parecchie In età molto più matura coltivò, per esempio, una relazione con una scrittrice ventenne (Annie Vivanti nata nel 1866, che lo chiamava, affettuosamente «orco») con la quale trascorsi persino una romantica settimana a La Spezia nel Golfo dei Poeti. Senza considerare il suo legame d’amicizia non si sa quanto platonica con la regina Margherita Una vicenda che sollevò un vespaio di polemiche contro di lui, da sempre fervente repubblicano, da parte degli antimonarchici. Carducci replicò, a sua difesa con eleganza, che pure un giacobino si inchina alla bellezza muliebre. Scrisse esattamente: «Ora perché ella è regina e io sono repubblicano, mi sarà proibito d esser gentile, anzi dovrò es sere villano? … Non sarà mai detto che un
poeta greco e girondino passi innanzi alla bellezza e alla grazia senza salutare». Carducci – poeta, scrittore, latinista, letterato, patriota, massone, senator del Regno e primo premio Nobel italiano per la lettera tura nel 1906 – con le donne spopolava. Chissà di quant’altre si sarà incapricciato avrà amato. Magari per una sola volta o per pochi giorni.