Di Cesare Lanza per LaVerità

La fortuna incide sugli episodi, ma in un tempo lungo sparisce, si equilibra. Il problema: con gli amici si finisce per litigare, con gli estranei e sconosciuti il rischio insostenibile è trovare giocatori troppo «disinvolti»
• «Il destino mischia le carte, l’uomo gioca la partita», ha scritto Victor Hugo. Mi permetto di aggiungere che è bene accertarsi che al tavolo, tra i tuoi avversari, non ci siano giocatori scaltri e abili, capaci di barare senza che qualcuno li smascheri. Platone ha detto che si scopre più di un uomo in un’ora di gioco che in un giorno di conversazione: probabilmente è vero, ma non basta certo un’ora a scoprire un baro professionista. E possiamo andare avanti: «A poker non giochi con le carte che hai in mano, ma con la persona che hai di fronte», dice James Bond nel film Casino Royale. Appunto. È importante che i giocatori, quanto meno, siano corretti. Non basta avere in mano carte buone, per vincere. Perciò ammiro la sincera
autocritica di Lapo Elkann: «Il caso, che distribuisce le carte per il poker della vita, a me ha dato una scala reale.
Ma se non la so giocare, posso perder tutto alle prime mani. Per questo ho cominciato a smazzare molto presto». Per esperienza, so che è molto difficile organizzare un tavolo da poker e trovare quattro o cinque giocatori affidabili. È una mia convinzione antica, e tante volte ne ho scritto, nei miei libri sul gioco. Se si tratta di amici, prima o poi il tavolo è destinato a sfasciarsi: tra amici, nessuno è disposto a considerarsi o addirittura dichiararsi meno intelligente degli altri. E prima o poi si litiga. Perché, in un poker corretto, alla lunga il giocatore più intelligente vince sempre. Ma l’animo umano è complesso, nei confronti: siamo disposti a considerarci meno belli o meno eleganti, meno concreti o meno astuti, meno simpatici 0 meno seduttivi degli altri; rarissimamente riusciamo ad ammettere di essere meno intelligenti.
Eppure un brillante e spietato proverbio sul gioco d’azzardo ci ammonisce: se entro una mezz’ora non capisci chi sia il pollo al tavolo, è quasi certo che il pollo sia tu. Pochi sanno che nel poker la fortuna indubbiamente conta, come nella vita e in qualsiasi gioco: l’intelligenza però (ovvero astuzia, valutazione lucida degli avversari e delle carte, determinazione, coraggio e prudenza) è assolutamente decisiva. Se a un tavolo si siedono gli stessi giocatori per cento volte, alla fine il più bravo e intelligente avrà polverizzato gli altri: perché la fortuna incide negli episodi, ma in un tempo lungo sparisce, si equilibra. Se invece al tavolo ti misuri, anziché con gli amici, con estranei e sconosciuti, affronti un rischio insostenibile: molto spesso, abili e disinvolti, nel gioco si introducono bari insospettabili. Ne ho incontrato parecchi, bravissimi e pronti a spennarti.
E vi racconterò qualche episodio divertente. Anni fa, nell’inserto culturale della domenica sempre eccellente – de II Sole-24 Ore, Ermanno Cavazzoni raccontò la sua esperienza giovanile nel Partito comunista e poi, delusissimo, la sua uscita. Dovuta a cosa? Fu invitato, una notte di Capodanno, a una partita a poker in casa di un (non meglio specificato) segretario provinciale del Pei; e quasi subito si accorse che quel segretario barava spudoratamente. Cavazzoni giustamente osservò che barare al gioco non gli sembrava in linea con gli austeri insegnamenti di Karl Marx. Non
aggiungo altro, non vado certo a caccia di smentite, di guai e di querele. Mi limito a riferire la qualità di un articolo bello e inaspettato. Relata refero. E mi limito a dire: attenzione a non giocare a poker con chi capita. Il baro spesso è una persona o, peggio, addirittura un importante personaggio, insospettabile.
I bari sono indulgenti con sé stessi: desidero citare Giacomo Casanova, che nelle sue memorie (imperdibili) scrive che, all’occorrenza, «aggiustava» la fortuna. Era, oltre a tutto il resto, un baro molto orgoglioso di sé. Debbo premettere però che sono un irriducibile ammiratore di Casanova: non solo trovo straordinarie e irresistibilmente divertenti le sue avventure, ma a parer mio è stato il più grande scrittore italiano del Settecento, con la storia della sua vita. Un riconoscimento che solo pochissimi critici gli attribuiscono, per due motivi. Il primo, perché scrisse le sue memorie in francese. Il secondo, perché prevalse la sua fama di spericolato avventuriero, in particolare di straordinario seduttore. Giacomo Casanova (Venezia, 1725 – Dux, Boemia, oggi Duchcov, 1798), cavaliere di Seingalt – un nome inventato da lui – è storicamente famoso per la sua evasione dal carcere dei Piombi a Venezia: fu l’unico a riuscirvi. Era stato arrestato senza neanche sapere perché: all’epoca la legge consentiva che non fossero date comunicazioni di sorta!
Certamente una ragione grave, anche se ignota, c’era: tutti i biografi (e lui stesso) concordano che la sua vita fu segnata dal disordine, dalle continue trasgressioni e da crimini di varia gravità. Giacomo era nato a Venezia nel 1725 da Gaetano e Giovanna Maria (Zanetta) Farussi, di professione attori: girovaghi, come tutti gli attori dell’epoca. Lui però nel libello Né amori né donne, ovvero la stalla ripulita, edito nel 1782, affermò la propria origine patrizia come figlio naturale del nobile Michele Grimani, famiglia assai potente nella Serenissima, In ogni caso, Giacomo fu ben presto abbandonato dai genitori alle cure della nonna Marzia Farussi.
Fin da ragazzo si guadagna da vivere con diversi mestieri: suona il violino, si impiega presso un avvocato, segretario del cardinale Troiano Acquaviva d’Aragona in Roma: si arrangia anche con truffe incentrate sulla magia, ma deve lasciare Venezia, qui sono vietate le pratiche magiche (1748). Vive tra Milano, Mantova, Parma, emigra a Parigi; a Lione aderisce alla massoneria. Viaggia di continuo: Vienna, Dresda, Praga. Di ritorno a Venezia (1755) è
arrestato: si presume per pratiche magiche, libertinaggio e ateismo; imprigionato ai Piombi, da dove evade (1756). Vive di gioco, di piccole truffe, ma anche di un piccolo stabilimento di lavorazione della seta dove riesce a impiegare anche 20 operaie. Seduttore instancabile, erra di Paese in Paese: Parigi, dove pratica ancora la magia (1757)» l’Olanda, Parigi nuovamente, la Germania, la Svizzera (dove incontra Voltaire di cui tradurrà la commedia L’Ecossaise ), la Savoia, la Provenza. Nel 1760, riceve dal papa la Croce dello Sperone d’oro e si fa chiamare «cavaliere di Seingalt». Nel 1763, ricco, brillante al culmine di una carriera amorosa irrefrenabile, conosce a Londra il suo primo insuccesso amoroso con una prostituta che lo sfotte: «È da quel giorno», scrive inconsolabile Casanova, «che ho iniziato a morire».
Secondo atto (dal 1764 al 1783): Casanova è ricevuto a corte da Federico II di Prussia e da Caterina di Russia (1764). Soggiorna in Polonia, dove un duello e pesanti debiti lo spingono a fuggire: Breslau, Dresda, Lipsia. A Vienna, è sorpreso a truffare al gioco (rieccolo!) e deve fuggire e tornare a Parigi. In Spagna, è imprigionato per frode e liberato per l’intervento di un alto personaggio. Poi si sposta nel Sud della Francia e, via Torino e Firenze, raggiunge Trieste (1772), dove prepara il suo rientro saggiando il terreno con le autorità veneziane. Rientra nella Serenissima nel 1774 e diventa confidente segreto dell’Inquisizione. Tuttavia, al seguito di un altro affare di donne e di gioco, di nuovo fugge da Venezia per un ennesimo viaggio attraverso l’Europa (1783). E ha quasi sessant’anni. La sua vita si chiude nel castello di Dux, in Boemia, dove lavora come bibliotecario e pubblica un romanzo, Icosaméron (1788), e molti altri opuscoli. L’anno prima conosce a Praga Wolfgang Amadeus Mozart e assiste alla prima del Don Giovanni , libretto di Lorenzo Da Ponte, veneziano come lui, a cui avrebbe suggerito alcuni passi, ispirandosi alla propria vita. Erano veridici i suoi racconti? Gli studiosi li hanno verificati ogni volta che è stato possibile, e confermati. Le menzogne ed esagerazioni, soprattutto per ciò che riguarda le sue avventure amorose, mostrano Casanova per quel che è: un istrione.
Nelle memorie, invecchiato, racconta anche con umorismo quel che in fondo fu: un Don Giovanni, un impostore, un giocatore e baro molto indulgente verso i suoi trucchi ed espedienti; e uno spione dell’Inquisizione veneziana. Era capace di coraggio come di bassezze. I suoi numerosi biografi descrivono le sue incredibili identità: fu un divoratore di libri, un abate, un avvocato, un falso capitano e il generale di un proprio esercito, fu mago, letterato, filosofo, fu impresario teatrale, ricchissimo finanziere quando inventò la lotteria in Francia che lo rese un pari del Re. Fu consigliere della zarina di Russia quando ideò il nuovo calendario. Non volle mai sposarsi, né comprare mai una casa «sua»: i suoi amori si spegnevano sempre nello stesso momento: quando l’amata chiede di esser presa in moglie. Casanova scrisse diffusamente delle sue conquiste e della sua qualità di seduttore, invece appare riservato, prudente anche se compiaciuto, quando si tratta di raccontare le sue prodezze di giocatore e di baro. Forse perché di essere seduttivo era orgoglioso, mentre era costretto a barare per necessità di denaro.
Comunque, non mostra mai alcun scrupolo morale. Il suo personaggio ha attratto scrittori e registi: memorabile il Ritorno di Casanova di Arthur Schnitzler, e quello cinematografico di Ettore Scola interpretato da un Marcello Mastroianni in gran forma (Il Mondo nuovo , ovvero La Nuit de Varenne). Anche Federico Fellini ha dedicato un film (mediocre) alla sua vita, con Donald Sutherland. Forse non è stata intesa l’essenza della sua vita, che Giacomo ha definito così: «Il tempo dedicato al piacere non è mai perduto; il solo tempo perso è quello che si consuma nella noia; e un giovanotto che si annoia si espone alla disgrazia di innamorarsi e di essere disprezzato». getty