Sono 2 milioni 205 mila dipendenti, il 17,2% della forza lavoro in organico delle imprese italiane, che stanno sperimentando lo smart working in Italia. È quanto emerge dal focus della Fondazione Studi Consulenti del Lavoro “Non chiamatelo smart working. Il lavoro agile ai tempi del Coronavirus secondo i Consulenti del Lavoro”, secondo cui è in corso il “test” più grande che sia stato condotto sul lavoro agile nel nostro Paese.
L’indagine, condotta tra il 23 e il 25 marzo 2020 su 4.463 iscritti all’Ordine, mostra che al Nord la quota di dipendenti “agili” è decisamente più elevata (18,8%), con punte in Lombardia (22%), Emilia Romagna (19,1%) e Piemonte (19,1%). Al Centro, ad eccezione del Lazio, la quota di quanti lavorano da casa si attesta al 17,4%, mentre al Sud scende al 15,3% ed è persino inferiore a quella di chi continua a lavorare in sede (18,1%). Indicativo, ma in linea con l’approccio culturale al lavoro agile, quanto accade nelle grandi realtà metropolitane come Milano o Roma: città caratterizzate da una maggiore presenza di attività di servizio avanzato e forza lavoro qualificata dove l’utilizzo del lavoro agile è molto diffuso e coinvolge rispettivamente il 27% e il 21,7% dei dipendenti, mentre solo il 15,7% e 14,6% di occupati continuano ad andare al lavoro. Bassa digitalizzazione di imprese e lavoratori, pesanti limiti legati alle infrastrutture del Paese e diffidenza da parte di imprenditori all’adozione di questa modalità di lavoro: queste le principali criticità che secondo l’indagine, stanno caratterizzando la sperimentazione dello smart working. Per i Consulenti del Lavoro a pesare è innanzitutto il basso livello di digitalizzazione del Paese, sia per l’indice di alfabetizzazione digitale di imprenditori e lavoratori (l’88,4% concorda che tale aspetto rappresenta un forte ostacolo per l’efficacia dello strumento), sia per le carenze delle infrastrutture tecnologiche (l’81,8% degli intervistati). Emerge anche un atteggiamento di diffidenza verso il lavoro agile da parte di larghi segmenti del tessuto imprenditoriale (79,3%) che non contribuisce alla sua diffusione in questa fase emergenziale. Guardando all’impatto prodotto dallo smart working sui processi lavorativi e ai suoi benefici, le valutazioni fornite appaiono complesse. Per il 74% degli intervistati le difficoltà di coordinamento a distanza dei gruppi di lavoro rallentano i processi decisionali e produttivi, creando disfunzionalità e inefficienza. l 50,6% dei Consulenti del Lavoro pensa che il lavoro da casa aumenti responsabilità e produttività dei lavoratori, ma il 49,4% pensa l’esatto opposto. Similmente, a fronte del 47,8% che afferma che con lo smart working si crei un clima di maggiore fiducia e collaborazione tra management e risorse umane, il 52,2% non è d’accordo con tale affermazione. È però indubbio che, pur tra mille limitazioni e ostacoli, esso stia comunque forzando aziende e lavoratori a innovare e modernizzare le proprie modalità operative: la pensa così il 56,5% degli intervistati. Quel che è certo è che l’esperienza in corso difficilmente potrà essere prolungata, in modo efficace e fruttifero, ad oltranza: l’85,5% dei Consulenti pensa infatti che si sia in presenza di una soluzione emergenziale che deve essere limitata nel tempo o intervallata da lavoro in presenza. Così come accade in molti Paesi dell’Unione Europea, che pur “praticando” da tempo e in modo diffuso lo smart working, indicano come modalità preferita, e preferibile, la combinazione di lavoro in presenza e a distanza. “Il quadro che emerge dalla nostra indagine – spiega Rosario De Luca, Presidente della Fondazione Studi Consulenti del Lavoro – è composto da luci ma anche da molte ombre: quella che fin dall’inizio è stata presentata come un’esigenza ma anche una grande opportunità di modernizzazione del lavoro si è concretizzata nei fatti in un’esperienza allargata di home working più che smart working. Molte delle aziende che si sono trovate da un giorno all’altro a dover organizzare e gestire il lavoro da casa hanno bypassato la ‘cultura dello smart working’, ovvero tutti quei percorsi di progettazione, sperimentazione, comunicazione, sensibilizzazione, formazione e monitoraggio di questo modello organizzativo. Senza considerare poi l’investimento che questo richiede in termini di infrastrutture tecnologiche private (dalla sicurezza delle reti alla disponibilità di pc e altri device per far lavorare i dipendenti da casa), ma soprattutto pubbliche: da anni – conclude De Luca – ripetiamo che una cultura moderna del lavoro fatica a radicarsi in un Paese, come il nostro, che non è in grado di garantire una copertura uniforme di banda larga”.