Anche la musica si può dopare, ora che il mercato ha ormai virato sullo streaming: alla pari dei follower comprati sui social si possono comprare i cosiddetti «play» su Spotify e sugli altri servizi on demand gonfiando così i numeri di stream dei propri brani, simulando ascolti da parte degli utenti. Questo da una parte porta remunerazione a chi detiene i diritti ma soprattutto influisce sulle classifiche.
Non c’è attualmente una quantificazione del fenomeno, sì che è particolarmente presente in America Latina, con il Brasile che da solo rappresenta il 50% della manipolazione totale. Di ieri, però, è la notizia che il tribunale di Berlino ha emesso un’ingiunzione contro Followerschmiede.de, uno dei più importanti siti specializzati in «streaming manipulation», con l’ordine di interrompere la sua attività di vendita di play su Spotify. A denunciare il sito, ormai offline, è stata la Bvmi, l’associazione dell’industria discografica tedesca, ma più in generale è la Ifpi, l’associazione che rappresenta il settore nel mondo, che sta agendo su vari fronti per contrastare il fenomeno.
Ci sono siti a livello internazionale che offrono riproduzioni di brani su Spotify a partire da 2 euro per 100 play fino a circa 300 euro per 100 mila play. Ma il listino può crescere a seconda della «qualità» del servizio: in Italia c’è chi offre un minimo di 1.000 play per 22 euro fino ad arrivare a 100 mila play per 1.400 euro. La differenza è sul tipo di play offerti: se arrivano da bot, ovvero programmi automatici, più facilmente individuabili, il costo è minore, mentre se arrivano da account umani il prezzo sale. Il meccanismo è lo stesso dei follower o dei like sui social, che si fanno con utenti fasulli oppure con utenti veri che appartengono a network di condivisione costruiti per l’occasione. C’è da dire che mentre con i bot il meccanismo è palesemente manipolatorio, sui network il discorso è più complesso. In ogni caso anche in Italia c’è già stato qualche caso di manipolazione di streaming su cui però le piattaforme hanno agito eliminando le distorsioni.
Il fenomeno, come detto, influisce su diversi aspetti del settore: la remunerazione dallo streaming arriva a chi detiene i diritti (in una suddivisione fra etichette, produttori, artisti, autori) sulla base dei play ricevuti: Spotify riconosce in media di 0,0032 dollari per play e Apple Music 0,0056 dollari. In realtà però le piattaforme semplicemente suddividono i propri ricavi. Questo significa che la creazione di play falsi alla fine va a influire su una corretta suddivisione delle royalties destinate agli artisti.
Facendo due conti si capisce che non è granché conveniente acquistare stream falsi solo per avere ricavi: facendo così però si ottiene visibilità e si può riuscire a entrare nelle classifiche.
«Chi crea musica deve essere remunerato in modo equo e preciso per il proprio lavoro e investimento», ha spiegato in una nota Frances Moore, il ceo di Ifpi. «La streaming manipulation compromette l’accuratezza delle classifiche, i pagamenti delle royalties ai creatori di musica o di altre figure e non può essere tollerata. Le piattaforme streaming devono trovare una soluzione tecnica a questo problema; da parte nostra, siamo pronti a intraprendere azioni legali contro questi siti».
Secondo il ceo di Fimi, Enzo Mazza, invece, «quello della streaming manipulation è un fenomeno gravissimo, che deve essere combattuto a tutti i livelli: questa azione prelude infatti a una vasta rete di iniziative globali, Italia compresa, pronte a schierare azioni efficaci contro questo tipo di abuso».
Andrea Secchi, ItaliaOggi