Nel 2019 l’utilizzo del carbone, ossia del motore che ha dato inizio e vita alla rivoluzione industriale, è calato del 3 per cento a livello globale. Bene, ma non si può certo parlare di decarbonizzazione.
Secondo l’Emission Gap Report 2019 dell’UNEP (United Nations Environment Programme) siamo ancora molto lontani dagli obiettivi che molti Paesi si sono dati per contrastare il riscaldamento globale di origine antropica (ossia quello provocato dalle attività umane) e i conseguenti cambiamenti climatici. Nel 2018 le emissioni globali di anidride carbonica hanno raggiunto i 37,5 miliardi di tonnellate: un record assoluto. E se alla CO2 si aggiungono gli altri gas serra il totale globale arriva a oltre 55 miliardi di tonnellate. Sarebbe necessario come minimo dimezzare il totale globale, se davvero vogliamo contenere l’aumento della temperatura media della Terra sotto i due gradi centigradi da qui al 2050 – e in ogni caso, secondo l’UNEP, l’obiettivo ideale di 1,5 °C ci sta sfuggendo.
UNA GOCCIA NEL MARE. Tra scelte politiche, guerre commerciali e spasmodica ricerca di nuove fonti fossili, c’è un piccolo trend positivo da registrare per il 2019: il rapporto “novembre 2019” sulla produzione di energia elettrica da carbone, commentato su Carbon Brief, infatti, mette in evidenza un’importante riduzione nell’uso del carbone per l’anno in corso: si parla di circa il 3 per cento in meno, equivalente a circa 300 terawattora – qualcosa come tutta l’energia elettrica prodotta da carbone in Spagna, Germania e Regno Unito. La decrescita ha visto ai primi posti gli Stati Uniti, alcuni Paesi dell‘Unione Europea e la Corea del Sud. Bene, e tuttavia, per gli autori dello studio, se anche il calo nell’uso del carbone dovesse continuare su questa strada, non sarà sufficiente a tenere i livelli di anidride carbonica al di sotto di ciò che serve per evitare che la temperatura media globale aumenti di 2 °C da qui alla fine del secolo.
PRIMI PASSI. Secondo Bob Ward, direttore del Grantham Research Institute (UK), è comunque un segnale da apprezzare e incoraggiare: «Sembra che la produzione di energia elettrica da carbone diventi meno interessante, almeno là dove ormai è più economico generare elettricità da gas naturale e da fonti rinnovabili». Ma anche Ward ammette che bisognerà attendere ancora qualche anno per capire se la flessione osservata in questi anni nell’uso del carbone (per esempio nel 2016 e nel 2017) sia la conseguenza delle varie crisi economiche e politiche o un segnale forte verso la decarbonizzazione.
CHI PIÙ E CHI MENO. Diversi Paesi occidentali sono stati partecipi di questa flessione, mentre nazioni come Cina e India rivelano di essere ancora fortemente dipendenti dal carbone. In Cina tuttavia, il quadro è molto complesso: se da un lato un recente rapporto di EndCoal mostra che nel Paese sono state costruite diverse nuove centrali a carbone, dall’altro si scopre che la crescita nella disponibilità di elettricità da carbone nel 2019 è rallentata del 3 per cento (complessivamente, del 6,7 per cento negli ultimi due anni). La riduzione è stata compensata dall’uso di energie non fossili, alcune delle quali ormai producono energia allo stesso costo del carbone. Pur non essendo ancora in un circuito neppure lontanamente virtuoso, anche in India l’uso del carbone è lievemente ridotto.
L’AMERICA SOLITARIA. In modo un po’ sorprendente, anche negli Stati Uniti l’uso del carbone sta rallentando, e questo nonostante gli sforzi per rilanciare l’industria carboniera fatti del presidente, Donald Trump. Lo dimostra il fatto che nel solo 2019 ben otto compagnie carboniere statunitensi hanno presentato istanza di fallimento, e tra queste la Murray Energy, la più grande compagnia mineraria del Paese.
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