«La cavalcata di Berti fu solo fortuna. Non sapeva cosa fare con il pallone»
Carisma straordinario, ego smisurato, cultura immensa: Gioannbrerafucarlo, come amava definirsi, ha lasciato una traccia indelebile nel nostro linguaggio e nel giornalismo. Ma prese anche enormi cantonate
(di Cesare Lanza per LaVerità) L’ho molto ammirato e stimato, anche frequentato. Ma non ho avuto la possibilità, e forse neanche la volontà, di diventare suo amico. Forse anche perché non mi sono mai piaciuti i suoi eccessi, ma non è questo il vero e profondo motivo, come vi racconterò. Gianni Brera è morto troppo presto, a 73 anni in un incidente stradale (San Zenone al Po, 8 settembre 1919 – Codogno, 19 dicembre 1992). Ci è mancato: sarebbe stato interessante, a dir poco, leggere cosa avrebbe scritto, ad esempio, della vittoria della nostra Nazionale nel campionato del mondo di calcio in Germania, nel 2006. O del dominio della Juventus in serie A. O della rivalità tra Leo Messi e Cristiano Ronaldo. O di cento altri argomenti, anche non sportivi. Della Lega, lui leghista ante litteram, e di Matteo Salvini; della decadenza italiana a ogni livello; delle elezioni che ci vengono negate; della corruzione sempre più diffusa, dell’immigrazione… Gianni, anzi Gioannbrerafucarlo come lui amava definirsi, aveva un carisma straordinario, la sua grandezza gli viene riconosciuta anche tanti lustri dopo la sua morte, come succede solo ai grandissimi. Un ego senza confini, una incredibile sicurezza in se stesso, una immensa cultura (non solo sportiva). Eccezionale però l’influenza che ha avuto sul nostro linguaggio. Fare melina. Sprecare una palla gol. La pretattica. Giocare in contropiede. La giusta contraria… E molto altro. Parole che ormai tutti usano per raccontare una partita di calcio.
CULTORE DI VINO E CALCIO
Gioann ha scritto di sé e dei suoi seguaci: «La vis polemica si sgonfia non appena s’incontra con Scetticillo, mio arguto inquilino con il nome in capo. Scetticillo mi ha convinto che argomentare di pedate è inutile come cercar di governare l’Italia secondo Benitone da Predappio. Scrivo di calcio da oltre mezzo secolo. Molti che scrivono usano tranquillamente i modi miei, ma non se ne accorgono affatto; vedono il calcio con occhi miei, ma si guardano bene dall’essermi riconoscenti. O se lo sono… non me lo danno a vedere». Il vino fu, con apprezzata competenza, una sua nota passione: «I bevitori di vino si dividono in due categorie: i viziosi che scontano il vino come una condanna e gli intenditori per i quali il vino è poesia e perfino preghiera». Sul grandissimo campione Diego Armando Maradona: «Che Maradona fosse un genio, nessun dubbio è possibile. E che i geni siano un tantino squinternati di cerebro, è risaputo e ammesso da sempre. Maradona, come tutti puro isso, cura lo suo particulare: ma questo non toglie che, eccellendo di per sé, egli esalti anche la squadra di cui è per solito gran parte». Su Italia-Germania, l’indimenticabile partita (mondiale ’70) del leggendario 4-3: «Parliamo allora di calcio, non di bubbole isteroidi. I bravi messicani sono impazziti a vedere italiani e tedeschi incornarsi con tanto furore. Adesso fanno i loro ditirambi. Pensano di apporre una lapide all’Azteca. Sarei curioso di leggere: e magari di veder fallire in altri la voglia di poetare ore rotundo». Sulle storiche sfide tra Inter e Juventus, il derby d’Italia: «L’Inter è squadra femmina, quindi passionale, volubile, e pertanto agli antipodi del pragmatismo che caratterizza la Juventus». Infine, altre due memorabili battute: «La vecchiaia è bella. Peccato che duri poco». «Ché se tu fiderai nelli italiani, sempre aurai delusione». È indiscutibile che il grande Gioan scivolò in sensazionali cantonate. Quando si occupava di ciclismo, arrivò a scrivere che Eddy Merckx non avrebbe mai vinto una grande corsa a tappe. Nel calcio, sentenziò che – per l’ambiente e il clima spezzagambe – nessuna squadra affacciata sul mare, o afflitta da temperature meridionali, avrebbe potuto primeggiare o addirittura vincere lo scudetto. Ma ci furono molti altri pronostici avventati. Alla vigilia del campionato del mondo del 1982, che poi vincemmo trionfalmente, scrisse che eravamo inferiori alla Polonia, «più solida», e al Perù, «più abile», presenti nel nostro girone (poi battemmo l’Argentina, il Brasile e in finale la Germania). Secondo lui, la nostra squadra era di «intrinseca modestia». E solo «per spirito patriottico» si spinse a dire che forse avremmo potuto «lucrare» qualche risultato e raggiungere la qualificazione al secondo turno. Nel 1966 l’infortunio di Brera era stato perfino peggiore: alla vigilia della partita con la Corea del Nord – che perdemmo 1-0 – aveva solennemente annunciato che, se fossimo stati sconfitti, non avrebbe più scritto una riga. Per fortuna di amici e nemici, ammiratori e denigratori, non è stato così. Non ricordo come si trasse d’impaccio, ma tutto gli fu perdonato, allora e sempre. Sono convinto che Brera forzasse agli estremi le sue convinzioni ragionevoli con la logica delle teorie – spinto dalla giusta intenzione di coinvolgere i lettori e di spalancare la porta a ogni sorta di polemiche, di cui diventava protagonista.
RISSOSO CON I NAPOLETANI
Che alcune sue arringhe offensive nascessero dal desiderio di essere primattore in scena, lo sospettarono molti, ma pochi ebbero l’audacia di scriverlo (non era facile mettersi contro Brera). Ad esempio, la battaglia contro fior di campioni, che lui aveva ribattezzato «abatini»: Gianni Rivera, Sandro Mazzola, perfino il solido Giacomo Bulgarelli. L’invenzione geniale del termine «abatino» (come di tanti altri neologismi) resta di uso comune ed è perfino accolta nei dizionari. Gianni Brera era un mostro del linguaggio, predestinato a una rissa – verbale – continua. Ed eccomi infine al mio rapporto con lui. Da Gianni Brera mi tenne lontano per molti anni (lui celebre e da tempo grandissimo, io esordiente) una motivazione che oggi, probabilmente, appare bizzarra e inverosimile a chi non ha memoria di quell’epoca remota. Gioann era un intransigente «nemico» di alcuni importanti giornalisti napoletani. E io ero nato al giornalismo grazie ad Antonio Ghirelli e Gino Palumbo, napoletani veraci, esattamente i bersagli preferiti di Brera. Approcciare Gioann con stima e simpatia mi sarebbe sembrato un autentico tradimento verso i miei due illustri maestri. Tuttavia, oggi, debbo ammettere che, dopo tanto tempo, l’insolito paradosso sul lavoro – le qualità e la fama di Brera – resta intatto. Quale paradosso? Questo: è certo che il suo nome resta scolpito, e giustamente riverito, nella storia del giornalismo, così come è certo che considerava del tutto ignoranti, inattendibili i rivali napoletani, per di più con l’aggiunta di qualche innegabile sfumatura razzista. Ai più giovani lettori di oggi sembrerà incredibile, ma negli anni Sessanta e Settanta le polemiche tra i giornalisti sportivi erano veementi, furenti, costanti. Ho già ricordato la divergenza tecnica che induceva allo scontro Gianni Brera, caposcuola del calcio cosiddetto all’italiana (difesa e contropiede) contro i giornalisti dell’odiata e irrisa, da lui, scuola napoletana, in prima fila i cultori, come Palumbo e Ghirelli, del bel gioco d’attacco. Incredibile, oggi, quella furia polemica. A Brescia, una domenica, finì addirittura a cazzotti: uno schiaffone di Gino a Gianni, due pugni ben assestati di Gianni a Gino. E c’era stato un precedente strepitoso. Nel 1962, inviato del Corriere della Sera, Ghirelli dedicò il suo primo articolo alle pessime condizioni sociali del Cile, che ospitava il campionato del mondo. Ne nacque un putiferio: polemica strumentale in Italia, indignazione in Cile. Dopo molti anni Ghirelli raccontò che una sera entrò in un ristorante alla moda di Santiago e si accorse che Brera, a capo di una tavolata di giornalisti italiani, fece un cenno, per indicarlo, a un omaccione. Questi – un campione di lotta greco romana – gli si avventò contro, gridando che Ghirelli aveva insultato la sua patria. Quanto all’evento sportivo, la nostra Nazionale, chiamata a battersi proprio contro il Cile, fu subito sbattuta fuori da un arbitraggio molto ostile. In Italia molti scrissero che la «colpa» era di Ghirelli. Cominciai a frequentare Brera negli anni in cui dirigevo a Milano il Corriere d’Informazione: mi indusse a farlo il mio fido amico Piero Dardanello, che era un suo devotissimo sostenitore.
I NOSTRI INCONTRI
La prima volta Gianni ci ricevette a cena in casa sua e si esibì in una rassegna dei vini che orgogliosamente custodiva in cantina. Lo inebriavano le sue conoscenze in questa materia, si pavoneggiava nel conversarne. Un’altra volta, in una trattoria dove mi aveva invitato: non riuscivo a distoglierlo dall’analisi del cibo e del vino, volevo stuzzicarlo sul calcio. Finalmente gli dissi la mia ammirazione per un fantastico gol segnato da Nicola Berti, in una partita dell’Inter in Coppa Campioni. Berti era partito dalla sua area, corsa finte e dribbling per tutto il campo, fino al gol. Un’impresa che a me pareva eccezionale. «Macché!» mi bloccò Brera con quel suo tipico ghigno derisorio. «Semplicemente non sapeva dove andare, cosa fare di ‘sto allone tra i piedi e ha avuto fortuna a tirare. Se non avesse segnato, nessuno ne parlerebbe». In anni successivi fondai e dirigevo un settimanale, alla fine degli anni Settanta, che si chiamava Contro: controcorrente su tutto, provocazioni, contestazioni. Anche questa volta, su suggerimento di Dardanello, pensammo di affidare a Brera una rubrica di risposte alle lettere dei lettori. Ma durò poco, pochissime settimane, lui si impermaliva perché riceveva, tra le altre, lettere aggressive, presuntuose, di lettori che lo sfidavano su qualsiasi argomento. Si tirò indietro. Ci sono stati molti tentativi di imitazione tra i giornalisti: così come per Indro Montanelli, anche per Brera (per nessun altro direi) ci sono stati, e ancora ci sono, decine di colleghi convinti di poter esserne eredi ed emuli. Ma nessuno vi è riuscito.