Le inaugurazioni dei mega store restano eventi mediatici di massa, con applausi e pacche sulle spalle dal team Apple ai primi della fila. L’ultima apertura a fine settembre a Città del Messico non è stata da meno, presente anche Deirdre O’Brien, la senior vice president retail che è succeduta ad Angela Aharendt (finita nel board di Airbnb) per sviluppare i negozi. Intanto il mondo tech non lesina critiche al gigante della mela sul fronte dell’innovazione: nel 2020 sono attesi gli occhiali intelligenti e un nuovo MacBook, ma tra prodotti in tilt (con l’aggiornamento a iOS 13.1.1) e gli smartphone made in India che appaiono datati rispetto a quelli dei competitor, ci si chiede quale sia il segreto del successo. Con una risposta che è il combinato disposto dei due aspetti contrastanti: da un lato l’amore per il brand, dall’altro una mancanza di innovazione bilanciata però dall’aver creato un ecosistema digitale.
Apple non convince il cliente per le specifiche tecniche, né perché cambia spesso (a Cupertino fanno di tutto per essere fedeli a se stessi), ma piace per lo stile di vita che ha saputo vendere ai consumatori.
La marea silenziosa dei suoi fan è cresciuta ben prima che il gruppo, assieme alla Aharentd, inventasse un format di negozi innovativo: da luoghi disciplinati con uno staff inflessibile sono diventati simili alle piazze delle città, ma più inclusivi di un club, offrono un parterre con alberi, buon design (italiano) e maestri per corsi di formazione e, sì, agli scaffali non hanno solo messo prodotti Apple ma marchi «connessi» al mondo che il gruppo ha creato negli ultimi 20 anni.
A giugno scorso il gigante che ha sfornato icone come Mac, iPod, iPhone, iPad e Apple Watch, di solito parco di dati, ha comunicato a proposito dell’orologio smart, che «il 75% degli acquirenti sono nuovi clienti», segno che non smette di far sognare. E se un’inchiesta di Le Figaro titolava qualche giorno fa «Possiamo ancora esaltarci per Apple?», a capovolgere la prospettiva ci pensa la foto dei fan in delirio all’Antara Fashion Hall della metropoli messicana.
Dalle colonne del quotidiano francese, si è associato il brand a una delle rare marche capaci di rispondere ai criteri del «Golden circle model» pensato da Simon Senek, guru americano che insegna comunicazione strategica alla Columbia University. All’interno del suo grafico concentrico c’è «il perché», il proposito della marca, poi «il come» e, infine, «il cosa». Ebbene, se tutti i brand di telefonia comunicano subito cosa producono, il gruppo californiano ha costruito il suo dialogo partendo dall’intelligenza e dall’immaginazione del cliente («Think different»). Poi si è concentrato su come i prodotti possono migliorare la vita (a casa, in palestra, durante un allenamento o trasformando i clienti in registi di pubblicità). Infine, è arrivato al prodotto che, è il caso dell’ultimo spot, gioca spesso da filtro con il mondo esterno. «È dura là fuori», recita il claim in inglese, prima che il nuovo iPhone 11 Pro, fissato in una galleria del vento, faccia da parafulmine ai simboli della vita di tutti i giorni (giochi di bambini, resti di insalata e verdure, oggetti vari, acqua, mazzi di fiori, trucchi, un guanto perduto, persino una torta nuziale che piomba dall’alto).
Altra chiave del successo, secondo i marketer, è la semplicità: chiunque oggi riesce a utilizzare un iPhone o un iPad. Mentre per le cuffie senza fili AirPods, il gruppo non ha badato nemmeno al logo, tanto sono risultate riconoscibili ai fan. La forza del marchio si è arricchita nell’ultimo periodo con il tema sicurezza, visto che le applicazioni dell’Apple store sono controllate per bloccare virus. Un presupposto che vince sulla smania di innovazione.
Intanto il gruppo oppone alle critiche sui nuovi telefoni californiani made in India (a causa della guerra Usa-Cina) anche il viso sorridente del ceo Tim Cook, nominato martedì chairman dell’advisory board della School of Economics di Beijing.
Francesca Sottilaro, ItaliaOggi