Da un’indagine di alcune studiose emerge che i fattori presi in considerazione per l’indice Bes dell’Istat, dal buon funzionamento dei trasporti all’ambiente alle scuole e alla sanità, incidono tanto quanto il reddito sulle decisioni delle famiglie
A pesare sulla decisione di avere o non avere figli non è solo la ricchezza o il lavoro, conta anche il Bes. Un acronimo ancora poco conosciuto: è la risposta italiana ai tentativi avviati da tempo in molti Paesi di costruire un indice di benessere che non tenga conto solo della ricchezza individuale e collettiva, ma anche di molti altri fattori che rendono la vita serena e interessante: vivere in un ambiente culturalmente stimolante, avere buone relazioni sociali, godere di servizi pubblici di alta qualità, da quelli sanitari ai trasporti alle scuole. Ecco perché, quando si indaga sulle cause della denatalità, non bisogna guardare solo ai redditi, ma anche a tutte queste altre variabili. Arrivano a questa conclusione tre docenti di demografia e statistica dell’Università di Roma La Sapienza, Alessandra De Rose, Filomena Racioppi e Maria Rita Sebastiani, e lo spiegano nel saggio “Avere figli in Italia: una questione di Bes”, pubblicato sul sito di demografia Neodemos.Il Bes è l’indicatore messo a punto dall’Istat per misurare il benessere della popolazione, che da qualche anno viene utilizzato anche per una valutazione dell’impatto delle misure economiche varate ogni anno con la legge di Bilancio. Non misura la felicità, ma valuta molti aspetti che certo concorrono a rendere felici le persone, dal tasso di passaggio dalla scuola superiore all’Università all’efficienza degli ospedali alla presenza di musei e biblioteche pubbliche. E che incidono fortemente sulla decisione di avere figli, secondo le conclusioni dell’indagine: il reddito primeggia (il tasso di correlazione tra natalità e indicatore composito del Bes è 0,70, in una scala da 0 a 1), e il lavoro segue di poco (0,67), ma le relazioni sociali hanno un valore solo di poco inferiore, 0,63, ed è un risultato che non cambia tra periodi di crisi (2010 – 2012) e periodi successivi con un quadro economico più sereno (2015- 2017). Mentre il valore del reddito cambia: a crisi finita, nel 2017, la correlazione tra l’indicatore e il tasso di natalità scende a 0,52, mentre sale di molto la valutazione del benessere soggettivo, si valuta di più anche il peso dell’ambiente, che invece negli anni di crisi pesa solo lo 0,47. Cambia anche la valutazione della qualità dei servizi: con la crisi la correlazione con il tasso di natalità è di 0,63, dopo scende a 0,51.L’unico aspetto che incide in negativo sul tasso di natalità, tra quelli presi in considerazione dalle tre studiose, è il livello di furti, rapine e saccheggi: lo si teme di più quando la crisi economica incombe, dopo la sua incidenza si alleggerisce. La salute ha sempre un certo peso, e la qualità del lavoro pesa quasi quanto la quantità.“E’ chiaro che dove c’è maggior benessere si mettono al mondo più figli. – dice Alessandra De Rose – ma non si tratta solo di benessere economico, la gente fa i conti anche con la qualità della vita. Anche se quando c’è la crisi, il benessere strettamente economico incide di più rispetto agli altri aspetti”.Del resto il tasso di natalità, così come altri aspetti del Bes, non segue fortunatamente la suddivisione del Paese tra Nord e Sud: anche gli ultimi dati appena pubblicati dall’Istat mostrano alcuni miniprimati meridionali, come quello di Isernia, prima città in Italia per passaggio dalla scuola superiore all’Università (65 su 100), o di Caserta, Trapani e Siracusa, nel gruppo di testa per paesaggio e patrimonio culturale. La mappa della fecondità in Italia non coincide con quella del reddito: alcune Regioni del Sud (a cominciare dalla Sicilia) sono leggermente più prolifiche di alcune del Centro e anche del Nord. Anche se in testa poi c’è la provincia di Bolzano, ai primi posti anche per Pil pro capite, con 1,74 figli per donna contro una media di 1,32.
Rosaria Amato, repubblica.it