Trenta minuti per piacersi o dirsi addio. Trenta minuti moltiplicato per 5-6 selezionatori almeno. Per essere assunti da Facebook servono tre ore o poco più. Il primo colloquio al telefono, obbligatoriamente in inglese, con le risorse umane a Londra, dove ha il centro di sviluppo europeo del social network fondato da Mark Zuckerberg. A seguire, se il livello di conoscenza della lingua permette di affrontare una conversazione piena di dettagli e spigolature, cominciano le valutazioni dei capi divisione e dei responsabili Paese. Ognuno ha a disposizione uno strumento applicativo sul quale carica la propria valutazione. L’esito viene così visionato dagli altri selezionatori, ma non da chi deve ancora testare il candidato restando libero da condizionamenti.
Il processo, che riguarda una decina di persone per 2-3 posizioni al massimo, si completa con un’assunzione a tempo indeterminato e una retribuzione variabile in base all’inquadramento. «Così avviene per gli amministrativi come per i top manager, per i vice-president e i responsabili di divisioni e di aree geografiche», spiega Luca Colombo, country director di Facebook Italia dal 2010, quando lasciò Microsoft per costruire la rete del social network nel nostro Paese. Facebook, nel frattempo, ha comprato WhatsApp e costruito il successo di Instagram, più usato tra gli under30.
In questi anni lei ha valutato gran parte dei dipendenti di Facebook in Italia: come li ha scelti? A cosa è attento?
«Non cerchiamo persone che eseguano compiti, che applichino procedure. Cerchiamo profili che abbiamo un pensiero laterale, che siano in grado di immaginare prodotti che non sono stati ancora creati. È indispensabile che si muovano in autonomia perché questo è il nostro modello. Se cercano certezze non è il posto giusto, il nostro, in cui lavorare. Bisogna sapersi muovere velocemente prendendo decisioni immediate, accettando la possibilità di commettere degli errori. Le faccio un esempio, se vuole».
Mi dica
«Il boom dei video su Facebook, la loro implementazione sulla piattaforma, le dirette: l’idea è di due ingegneri-sviluppatori che a Menlo Park, senza alcuna direttiva aziendale, hanno realizzato i codici per lo sviluppo di questi strumenti. Si sono mossi da soli, hanno immaginato il futuro, e lo hanno portato in azienda. Questo è quello che cerchiamo».
C’è un corso di studio che predilige?
«Non c’è uno specifico. È chiaro che per tutti i profili tecnologici servono competenze informatiche di alto livello nella parte di sviluppo di applicazioni. Ma a Milano abbiamo profili maggiormente legati al business e alle vendite. Figure che si interfacciano con le aziende, le istituzioni, le organizzazioni non governative. Abbiamo laureati in Lettere, in Scienze della Comunicazione, in Filosofia, in Statistica, in Matematica. Ciò che conta è l’indole da battitore libero, che si muove prefigurando una direzione che possa portare vantaggi a sé e al gruppo in cui lavora».
Ammetterà che così rischia di perdere tempo. Non pensa che possa innescarsi un caos nel modello organizzativo con ognuno che va dove vuole?
«Al contrario. Ciò che conta è saper dire no tante tante volte».
In che senso?
«Sul mio tavolo, come su quello degli altri, arrivano decine di proposte. L’importante è fidarsi di quello che può funzionare. Intercettare le idee giuste, bocciandone in gran parte senza remore. Sa come lo chiamano gli inglesi?»
Come?
«Focus on impact, focalizzarsi sulle decisioni che hanno un impatto decisivo sul modello e sulle prospettive dell’azienda. Prima di dire sì puntando convintamente su una proposta bisogna imparare a dire tanti no senza pensare di essere scortesi. È un modo qualitativo e competitivo di circolazione delle idee, in cui ognuno è chiamato alla proposta vincente senza pensare di essere perdenti se non passa la propria».
Non bisogna aver paura di sbagliare?
«L’azienda ti dice dove stiamo andando, al resto dobbiamo pensarci noi. Abbiamo a che fare con milioni di consumatori solo in Italia, 31 milioni su Facebook, 14 su Instagram, su WhatsApp ancora di più. È un contesto lavorativo molto sfidante e non bisogna aver paura di commettere errori».
Quanto aiutano le esperienze all’estero del potenziale candidato?
«Moltissimo, lavoriamo tutti i giorni in un ambiente internazionale. Bisogna avere le cosiddette soft skill, capire la diversità culturale di chi lavora con noi».
Prendete stagisti?
«Pochi per la verità. Se ne prendiamo qualcuno è perché vogliamo inserirlo in organico. Perché investiamo su di lui e ci aspettiamo che resti».
Salari e contratti, quanto si guadagna da voi?
«Il contratto prevalente è quello del commercio. I salari sono in linea con il mercato ma garantiamo diversi benefit accessori, come la possibilità di accantonare una parte dello stipendio per un piano pensionistico complementare. Chi ha avuto un figlio ottiene una componente cash. Garantiamo il congedo parentale per quattro mesi anche ai papà».
La politica dei bonus? Sono previsti meccanismi di incentivazione azionaria?
«Nel pacchetto c’è una componente azionaria garantita ai dipendenti Facebook. Ad ognuno viene conferita una quota di azioni del gruppo trasferendola nelle sue disponibilità secondo determinate tempistiche in modo da stimolare la permanenza in azienda. In più ogni cinque anni concediamo un mese sabbatico pagato per staccare la spina».
La valutazione delle performance come avviene?
«Due volte all’anno. In base agli obiettivi i manager e i collaboratori esprimono dei feedback su ognuno di noi. Le valutazioni poi sfociano in un rating che esprime la nostra o vicinanza o meno ai target previsti».
Come ciò si lega all’elargizione di bonus o di possibili aumenti dello stipendio?
«Si traduce in un potenziale revisione dello stipendio e si ragiona su un’eventuale concessione di bonus e incentivi alla fine dell’anno. La risultante di questo processo è che i momenti di valutazione delle performance sono comunque due e riguardano tutti coloro i quali lavorano con una determinata persona in modo da avere una visione obiettiva e il più larga possibile».
Viene favorita la mobilità all’estero?
«Ci sono delle figure interne a Facebook deputate proprio al supporto a i trasferimenti da una sede all’altra. La mobilità viene favorita anche per contaminare i team di lavoro. A Menlo Park per esempio si occupano più della parte di prodotto e si ha accesso ai codici per lo sviluppo di applicazioni. Ci sono più profili tecnologici, ma non è necessariamente un upgrade professionale. Semplicemente qui a Milano, a Parigi dove c’è il centro di intelligenza artificiale o a Singapore si svolgono compiti diversi altrettanto affascinanti».
Fabio Savelli, Corriere della Sera