Il Tar del Lazio ha dato torto ad Airbnb che aveva presentato ricorso contro la norma che impone agli intermediari di fungere da sostituto di imposta per i proprietari di casa che fanno locazioni turistiche di breve durata. La vicenda si trascina da un paio d’anni e non finisce qui perché ovviamente ora ci sarà ricorso al Consiglio di Stato. Aule di giustizia anche per le norme regionali lombarde sugli affitti brevi. Sul regolamento della legge pende una richiesta di sospensiva del Tar, su istanza dell’associazione Prolocatur. L’udienza è fissata per il 20 marzo. Ma sulla stessa legge pende addirittura un conflitto di attribuzione sollevato dal governo Gentiloni, che contesta la possibilità di legiferare in materia da parte della Regione, e su cui dovrà pronunciarsi la Consulta. Infine, il decreto sicurezza ha definito le norme sull’obbligo di segnalazione degli ospiti, che va fatta sempre alla Questura entro 24 ore dall’arrivo, anche se si tratta di cittadini comunitari. Non meraviglia il fatto che il fenomeno degli affitti brevi sia al centro dell’interesse dei legislatori e che finisca nelle aule della giustizia amministrativa: troppo forte il contrasto di interessi.
Da una parte le piattaforme di prenotazione, le società specializzate nella gestione e i proprietari di casa, dall’altra i condòmini che di solito non vedono di buon occhio il via vai e soprattutto gli albergatori, a cui gli alloggi privati fanno concorrenza feroce. I proprietari di casa con l’affitto breve ritengono di ottenere due risultati. Il primo è eliminare le rigidità e i rischi legati alla locazione tradizionale: non c’è il pericolo di morosità da parte dell’inquilino e in qualsiasi momento l’alloggio può tornare disponibile. Ma ad attirare i proprietari c’è anche il rendimento degli affitti brevi, sulla carta molto vantaggioso. Ma è proprio così? Qualche dubbio al riguardo è lecito. Nella tabella abbiamo calcolato il rendimento di due immobili; il primo già in possesso dell’investitore, il secondo acquistato ad hoc. Ne risulta che con un buon flusso di entrate e senza contare eventuali spese di gestione straordinaria, la performance effettiva va dal 2,5 al 2,8%, quanto cioè si ottiene da un Btp decennale.
I conti
Nel calcolo abbiamo considerato innanzitutto l’entità effettiva dell’investimento. Nel caso dell’abitazione già posseduta abbiamo ipotizzato un prezzo di mercato di 200 mila euro, che la sistemazione dell’alloggio per ottimizzarlo all’affitto comporti 10mila euro di spese e che per vendere la casa sarebbero necessari 7.000 euro di provvigione. Con queste premesse affittare la casa equivale ad un investimento di 203 mila euro (193 mila del mancato incasso da vendita più i 10 mila delle spese di approntamento). Per la casa da acquistare abbiamo ipotizzato un immobile di maggior valore e spese maggiori (arredo e ristrutturazione) per adeguare l’alloggio a ricevere inquilini. Per la prima casa l’incasso annuo lordo presupposto è di 18 mila euro, per la seconda di 24 mila. In entrambi i casi abbiamo ipotizzato una casa data in gestione integrale, con provvigione comprensiva di Iva e spese pari al 25% dell’incasso. Fare da sé significa risparmiare questo esborso, però difficilmente si incassa al lordo la stessa cifra ottenuta da un gestore professionale e poi l’impegno di tempo necessario fa sì che non si possa parlare più di investimento ma di lavoro. La cedolare secca è del 21% sul lordo (i costi di gestione non sono detraibili) e poi vanno aggiunti i costi condominiali e le utenze, la Tari e il wi-fi (affittare senza è pressoché impossibile); anche calcolando questi costi all’osso tirando le somme si giunge a rendimenti effettivi sotto il 3%.
Gino Pagliuca, Corriere.it