I dati statistici sull’occupazione vanno sempre presi con le pinze, perché dipendono dai criteri che vengono utilizzati per definire chi rientra nelle categorie di occupato/disoccupato, a volte molto lontani dal senso comune. Dalla ricerca compiuta dall’Osservatorio statistico dei Consulenti del lavoro (che sarà presentata al Festival del lavoro che si apre a Milano il 28 giugno) emerge però in modo chiaro la difficile situazione che stanno vivendo i giovani italiani, sui quali si sono scaricati in modo violento gli effetti della crisi economica degli ultimi dieci anni. Alcuni dati impressionano in modo particolare: tra i laureati nella classe di età tra 20 e 34 anni (circa 1,2 milioni) che hanno un’occupazione, ben il 28% (348 mila) risulta sovraistruito, cioè occupa una posizione professionale che in realtà non richiede la laurea. Stiamo parlando di circa il 30% dei giovani laureati, costretto ad accettare un lavoro inferiore alle proprie aspettative, con punte di sovraqualificazione anche sopra al 50% per chi proviene dalle facoltà di lingue e scienze sociali, mentre per i laureati in medicina, ingegneria, statistica e farmacia il fenomeno è più contenuto e non raggiunge il 20%.
La crisi economica ha poi aggravato notevolmente un secondo aspetto, quello della sotto occupazione: tra chi ha meno di 34 anni si è infatti passati da un’incidenza di part-time involontario pari al 48,3% del 2008 al 74,8% del 2017.
Nello stesso periodo, mentre il numero dei giovani con contratto a tempo determinato è rimasto sostanzialmente invariato, quelli con contratto a tempo indeterminato sono scesi da 4.200.000 a 2.700.000. Una categoria in via di estinzione.
Era inevitabile che una crisi violenta come quella attraversata dal Paese negli ultimi dieci anni si ripercuotesse soprattutto sui giovani, ma la drammaticità di questi dati segnala anche il sostanziale fallimento delle politiche per il lavoro attuate dagli ultimi governi, dal Jobs act alle numerose misure agevolative a favore proprio delle fasce giovanili, che possono aver avuto un effetto tampone in casi particolari, ma non hanno saputo incidere sulla struttura del mercato del lavoro.
Forse varrebbe la pena di prendere atto che il lavoro non si può creare ex lege. Probabilmente sono più utili azioni volte a far combaciare la domanda e l’offerta di lavoro, azioni in parte già avviate da qualche anno con gli istituti tecnici superiori che stanno dando ottima prova di sé, raggiungendo tassi di occupazione di diplomati che sforano l’80% ma con una dimensione ancora molto limitata (sono solo 96 in tutto). Si tratta di un percorso post superiori, ispirato al modello tedesco, parallelo alle università che punta a creare tecnici di alta formazione. L’obiettivo è di limitare il fenomeno di imprese che non riescono a trovare personale qualificato, mentre un esercito di giovani si impegna in studi, il liceo resta la prima scelta alle superiori per non parlare poi di alcune facoltà universitarie, che hanno poco o nulla da offrire in termini di possibilità di impiego. Clamorosa per esempio anche la contraddizione della fioritura delle scuole di giornalismo mentre gli istituti professionali registrano da anni un lento declino.
È evidente che in ampie fasce della popolazione vi è una scarsa conoscenza delle dinamiche reali del mondo del lavoro. E forse sarebbe il caso di puntare di più in questa direzione, con corsi di orientamento per studenti e genitori, meglio strutturati e diffusi a tappeto. Paradossale invece che, da una parte il M5s abbia elevato la disintermediazione e l’utilizzo delle Rete a paradigma di una nuova società (nella quale non ci saranno più agenzie di viaggio, giornali, partiti politici, sindacati), mentre dall’altra nel programma del governo del cambiamento si prevede di investire 2 miliardi di euro (mica noccioline) per rilanciare l’intermediazione dei vecchi uffici di collocamento, che finora hanno fatto di tutto meno che trovare un lavoro a chi non ce l’ha.