Il presidente americano trionfalistico alla vigilia dello storico incontro con il leader nordcoreano. Il segretario di Stato americano Mike Pompeo detta le condizioni: “Denuclearizzazione completa, nessuna concessione senza prove verificabili”
“Tutto sta andando così bene che il summit lo chiudiamo in fretta e stasera torno a casa”. Donald Trump ha già deciso qual è il bilancio dello la storico vertice con Kim Jong-un: un trionfo, una vera svolta per la pace mondiale. Ancora prima che il vertice si apra, questa è la parola d’ordine del presidente al suo staff. Che prontamente la trasmette: ieri sera prima di andare a letto a Singapore la portavoce della Casa Bianca Sarah Sanders ha emesso il comunicato della vittoria: “Le discussioni tra Stati Uniti e Corea del Nord progrediscono più velocemente del previsto. Alle ore 20 di martedì il presidente sarà sulla strada del ritorno negli Stati Uniti“.
In mezzo c’è una breve descrizione delle giornata di oggi: alle nove l’incontro fra i due leader a tu per tu, solo accompagnati dagli interpreti; poi una riunione delle delegazioni molto ristrette, infine un pranzo di lavoro. Lo Sceneggiatore Capo ha già deciso tutti i dettagli. È nello stile di Trump, che fin dall’inizio è balzato sull’occasione di questo incontro come un’opportunità per scrivere la Storia, distinguersi da tutti i precedessori, dimostrare che nessuno sa negoziare come lui, e quindi solo a lui possono riuscire delle imprese considerate impossibili. Come il disgelo con una Corea del Nord che fino a poco tempo fa era considerata il potenziale focolaio della terza guerra mondiale (e con cui la guerra del 1950-53 non è mai stata chiusa da un trattato di pace).
La decisione molto tipica di Trump di “dichiarare vittoria subito e tornare a casa“, rilancia però tutti gli interrogativi, sui limiti di questo dialogo. Clamoroso, spettacolare, ma nella sostanza garantirà davvero che la dittatura comunista di Pyongyang rinunci all’atomica e agli arsenali di missili a lunga gittata? “L’obiettivo – risponde qui a Singapore il segretario di Stato Mike Pompeo – è ottenere una denuclearizzazione totale e verificabile. Solo quando l’America avrà ricevuto le prove di questa denuclearizzazione, saranno levate le sanzioni. In cambio Kim otterrà garanzie sulla sicurezza della Corea del Nord“.
Pompeo ha voluto sottolineare che l’America non si farà beffare, non ci saranno concessioni fino a quando non avrà certezze sull’effettivo smantellamento dell’arsenale di Pyongyang. La vigilia del summit è stata consacrata all’incontro preparatorio fra le due delegazioni americana e nordcoreana, che hanno spianato la strada per il dialogo tra i due leader massimi. Dialogo che, nonostante “l’elogio dell’improvvisazione e dell’istinto” fatto più volte da Trump nei giorni scorsi, avverrà all’insegna della competenza, assicura la Casa Bianca.
Pompeo ha voluto smentire retroscena e ricostruzioni della stampa americana che accusano questa Amministrazione di dilettantismo. Si è difeso elencando puntigliosamente i titoli accademici degli esperti presenti nella sua delegazione. Restano molte incognite. Non c’è nessuna chiarezza su quale sia la “denuclearizzazione” che il regime nordcoreano sarà disposto a concedere. Potrebbe essere presentata come un obiettivo di lungo termine, magari condizionata al disarmo di tutti gli altri, America inclusa.
Il buio è totale riguardo a quali verifiche sul disarmo verrebbero ammesse da Pyongyang. In un regime poliziesco, isolato e paranoico, è difficile immaginare quel tipo di “perlustrazioni-perquisizioni”, costanti e invasive, che gli ispettori internazionali dovrebbero fare. In mancanza di quel tipo di controlli, il rischio che il regime imbrogli sarà alto. Infine non compare nell’agenda del summit il tema dei diritti umani. La realpolitik trumpiana accetta questo patto col diavolo: purché ci siano degli impegni sulla denuclearizzazione, il regime Kim non va criticato per i suoi crimini, anzi bisogna dargli ogni garanzia che lui non farà la fine di Gheddafi o Saddam Hussein. Le promesse sulla sicurezza nordcoreana che Trump è pronto a offrire sembrano riguardare il regime più che il paese.
Di buon auspicio per l’atteggiamento positivo della delegazione nordcoreana, ci sono le voci trapelate da Pyongyang su un invito a Trump perché il prossimo summit si tenga proprio in Corea del Nord. Anche questo però è un segnale ambivalente. Da una parte significa che Kim scommette sulla possibilità di trovare un’intesa personale e di aprire una stagione del dialogo con l’acerrimo nemico di una volta. D’altro lato però il solo fatto di pensare già a un secondo summit può indicare che la dittatura comunista vuole imbrigliare gli Stati Uniti in un processo dai tempi lunghi, senza svolte immediate. E in effetti nelle ultime dichiarazioni di Pompeo si comincia ad accennare al summit di oggi proprio come l’avvio di un “lungo processo, di un arduo lavoro successivo”. Questo non riguarda Trump, i dettagli saranno il lavoro di altri: a lui basta aver già impresso sull’evento il sigillo della sua capacità personale, la prova di un talento senza eguali.