Ciclone. Gladiatore. Guerriero. Vendicatore. Campione. Campione del Mondo. «Sul tetto del mondo», come dice lui. Sandro (Alessandro) Mazzinghi quest’anno compie ottant’anni. Il bilancio della sua vita lo fa con poche parole: «Ma sì. Sono contento della mia vita». Eppure, anche la sua vita, la vita di un campione, non è stata facile. È sempre lui che dice: «Anche i pugili piangono». E il campione piange. Piange da quell’inizio d’anno. Nel gennaio del 1964 si sposa. «Vera era bella. Bruna e con gli occhi azzurri. Era forte di animo e di corpo. Se abbracciava mia mamma la sollevava da terra. Con lei è stato un colpo di fulmine. Non aveva mai voluto vedere un mio incontro di pugilato. Voleva farmi felice, non voleva vedermi sofferente. Poi…». Poi, è ancora presto, di ritorno da una cena di gala a Montecatini, la pioggia. La strada è malconcia. La macchina sbanda. «Si sbatte sull’unico albero che c’è in centinaia di metri». Vera muore. Sandro si spacca la scatola cranica e il labirinto auricolare. Ma si salva. Ora, Sandro è un bel signore ottantenne dallo sguardo sereno. Le cicatrici del suo volto si sono richiuse. «Di pugni ne ho presi, ma ne ho dati almeno altrettanti». Quell’altra cicatrice è ancora lì. Nel cuore. Ha scritto anche una canzone su quell’amore che il destino gli ha strappato. A un certo punto dice: «Quanti ricordi parlano di te. Almeno in sogno vieni a trovarmi ancora. E riportami un’ora del nostro grande amore». E l’ha portata in una tournée, nel 1968, nei palazzetti dello sport di mezza Italia insieme al cantante italobelga Salvatore Adamo.
Ancora adesso la ricanta: che sia in un viaggio in treno, ospite in una trasmissione televisiva, da solo nella sua bella casa appena fuori da Pontedera dove fa un vino «buono e generoso» com’è lui. È tornato a Pontedera, in realtà non se n’è mai andato, dove tutto comincia. «Erano gli anni della Seconda guerra mondiale. La mamma si alzava alle cinque del mattino e tirava avanti fino alle sei di sera – racconta nel libro Anche i pugili piangono, scritto con Dario Torromeo (Absolutely Free editore, 2016) -. Andava a fare i materassi dei contadini, i bucati in casa dei ricchi. Quando rientrava interrompevo il lavoro nei campi, mettevo gli zoccoli sotto le bretelle della canottiera e le andavo incontro. La mamma appariva in fondo alla strada, un’ombra che avanzava dondolando. Due borse nelle mani, una cesta sulla testa. Dentro c’erano cipolle, aglio, fagioli, ceci, pane. Soldi non ce n’erano e i contadini le davano gran parte della ricompensa direttamente dall’orto». Sandro ha sofferto la fame, «quella vera che ti fa svegliare di notte», ha sofferto la paura, «quella che provi sotto i bombardamenti». E soldi ce n’erano pochi anche a guerra finita. Sandro faceva qualche lavoretto: falegname, imbianchino, aggiusta-bici. Ogni tanto accompagnava in palestra il fratello Guido, di sei anni più grande, e già bravo pugile. Una sera c’era in programma una serie di incontri. Un pugile non si presenta. Chiedono a Sandro di sostituirlo. È titubante. Finché non gli dicono: «Se sali sul ring poi c’è bistecca, vino, pane e frutta». E lui sale. Comincia così una carriera che gli farà disputare 69 incontri: 64 vinti, 42 per ko; 3 sconfitte; 2 no contest . Campione del mondo, categoria pesi medi junior nel 1963, 1965, 1968. Campione europeo nel 1966, 1968 (cinque incontri per il titolo d’Europa vinti tutti). Insomma non era facile battersi con quel tipo alto un metro e settantatré centimetri che pesava attorno ai sessantanove chili. Le ha prese, o meglio è stato sconfitto due volte, da un altro campione, Nino Benvenuti, che anche lui quest’anno compie ottant’anni. Ma Sandro una volta è stato costretto a combattere anche se non stava bene, l’altra – a sentir non solo lui – non meritava di essere sconfitto ai punti. Ma qui si apre un capitolo delicato. Oggi Mazzinghi fa il signore. Al massimo dice che Benvenuti – ma preferisce chiamarlo «lui» – è, era, «un po’ birbante». Che le cose «che a me stavano male a lui stavano bene». Dieci compleanni fa Sandro era più drastico. Diceva a Riccardo Signori: «Basta con questa storia. Sono stato fregato. Ci sono state cose non chiare. Ho visto la disonestà dell’ambiente sportivo. Quando entra la politica entra il marcio. Nel secondo incontro con lui in qualsiasi parte del mondo mi avrebbero dato la vittoria».
Per il resto, il Cavaliere della Repubblica (1963) Mazzinghi Sandro ha soltanto da impilare grandi soddisfazioni. Che, per carità, gli sono costate grandi sacrifici, pesanti rinunzie, tanta fatica e qualche dolore. «Ma mi hanno portato sul tetto del mondo: hai da mangiare, hai da vestire, hai soldi, hai tutto, puoi comprare la casa a tua mamma che per tanti anni ha fatto tanta tanta fatica per pagare l’affitto». E pensare che Sandro avrebbe voluto fare un altro mestiere. Un altro sport: il ciclismo. «Ma comprarsi una bici allora costava almeno quarantamila lire. E chi ce l’aveva? Cominciare a fare a pugni era gratis. Dopo un po’ ti davano pure qualche mille lire. Tornavi a casa con un bozzo in testa ma potevi dire alla mamma: ho guadagnato qualcosa per la famiglia». Ma la mamma era sempre preoccupata per Sandro: accendeva candele in chiesa davanti al Sacro Cuore e pregava perché i suoi figli pugili, Guido e Sandro, non si facessero del male. Ma il destino di Sandro era segnato. Il suo primo allenatore, Alfiero Conti, dopo che il quattordicenne s’era preso le prime «sbucciate» in palestra gli disse: «Ascoltami Sandrino: se trovi il coraggio di insistere diventerai campione del mondo». E a 25 anni, il 7 settembre 1963, la profezia si avvera. In un incontro con l’americano poi australiano Ralph Dupas, nella categoria al limite dei 69,853 chili (154 libbre), alla nona ripresa Mazzinghi stende il campione e diventa lui il campione e sale «sul tetto del mondo». E poi tante gioie professionali e tanto dolore umano. E anche una profonda delusione per quella sconfitta il 17 dicembre 1965 a Roma con Benvenuti. Mazzinghi l’ha sempre definita «ingiusta». Un giovane e intraprendente giornalista del «Corriere dello Sport», Cesare Lanza, incontrò quella sera il gladiatore ferito nello spogliatoio. Mentre lo aspettava lo sentì cantare, sotto la doccia, Roma nun fa la stupida stasera… Sono stati quelli Pugni amari, come il titolo del libro che Mazzinghi ha scritto con Michelangelo Corazza e Mario Braccini (A.B. editore, 1993) in cui racconta «le gioie e i trionfi, ma anche le delusioni e i dolori di un grande del ring». La più grossa delusione professionale l’ha raccontata a Mauro della Porta Raffo: «Ho scritto Pugni amari perché ho subito molte ingiustizie nella vita. Sono sempre stato un uomo pulito e onesto e forse proprio per questo mio carattere schietto non andavo giù a qualcuno. L’ho chiamato Pugni amari perché ho visto l’ingratitudine di tutte quelle persone che finché ero “il Campione” con la c maiuscola avrebbero fatto carte false per starmi vicino salvo abbandonarmi quando non sono stato più il Mazzinghi che strappava titoli cubitali sui giornali». Cubitali come quelli a descrivere il trionfo del 26 maggio 1968 allo stadio di San Siro a Milano, con sessantamila spettatori attorno, sul coreano Kim Ki-soo. Si combatteva per il titolo mondiale. «Quel titolo che era già stato mio tre anni prima e che una sorte, diciamo beffarda, mi portò via ingiustamente. Fu un incontro durissimo: due tori nell’arena, quindici intensissime riprese di pura follia. E tornai in possesso del “mio” titolo di campione del mondo».
E qui Mazzinghi svolge il suo sillogismo, più o meno, perfetto. Suona così: Kim Ki-soo ha battuto Benvenuti, io ho battuto Kim Ki-soo, quindi io sono più forte di Benvenuti. Quel duello è ancora oggi per il generoso Sandro il suo «match dei match»: «Una sinfonia, un quadro, una scultura, un capolavoro. È stato come battere lui, il coreano, e insieme anche l’altro. Mi sarei battuto fino alla morte piuttosto che perdere. Fu il riscatto. E un inferno per tutti e due». E all’inferno Mazzinghi ci crede davvero e non soltanto a quello che ha visto con i suoi occhi sui mille ring che ha calpestato. Dio mi ha dato tanta forza, dice, quella fisica e quella di andare avanti, di essere onesto e di amare la famiglia. Persino una delle mie prime vittorie importanti, quella in Francia con Annex il gitano, nasce perché – come racconta Sandro Veronesi nel libro Live (Bompiani, 1996, ripubblicato da La nave di Teseo nel 2016) – «nel capo avevo solo di vendicare il mio fratello perché lui ci aveva perso, e il mio coraggio era quello lì, insistere per vendicare il mio fratello. E così mi è venuto fuori quello spruzzo diveleno, e alla nona ripresa quell’Annex lo mandai knock out». Qualche volta durante un combattimento ha anche rivolto un pensiero alla Madonna: aiutami a farcela. Da ragazzo, quando ha fatto anche il muratore, ha partecipato alla costruzione della grotta della Madonna di Lourdes a Pontedera. E ha murato la statua della Madonnina nel campanile della chiesa. Dopo tanti anni la sua città ha dedicato anche a lui una statua: il gladiatore ha il pugno alzato; è pronto a combattere. Ma la storia non finisce qui. Tra non molto uscirà un altro libro sulla «nobile arte» in cui doverosamente si riparlerà di Sandro Mazzinghi. Lo ha scritto Fabio Panchetti che quando «il Ciclone» vinse il suo primo mondiale aveva otto anni. Citando con molta approssimazione Ivano Fossati: «Il tempo non cancella le intenzioni del cuore».
Francesco Cevasco, La Lettura del Corriere della Sera