Il pugile rovinato dalle donne che disse no ad Antonioni: «Non interpreto un cornuto»
Da giovane cronista prendevo in giro il boxeur diventato attore per la sua bellezza Ora mi commuovono le sue sconfìtte. Il dolore più grande: la perdita dei due figli

(di Cesare Lanza per LaVerità) Di Tiberio Mitri non ho un bel ricordo, per colpa mia, sinceramente: mi dispiace la superficialità con cui lo trattavamo, al Corriere dello Sport, quando veniva in redazione. Il «campione di pugilato più bello del dopoguerra», come lo aveva definito Gianni Minà, era ormai un uomo solo, distrutto, alla fine miserabile – della sua carriera, sempre altalenante. Lo specialista della boxe, al giornale, era un asso del giornalismo sportivo, Franco Dominici. Le sue cronache di certi incontri di pugilato erano pezzi di antologia, mi sembrava di leggere Ernest Hemingway, con lo stile dei suoi racconti di toreri e corride, o dei personaggi disperati di Erskine Caldwell e degli infelici emigranti di John Steinbeck. Dominici accoglieva Mitri con affettuoso rispetto, si fermava a parlare con lui e poi ci diceva: «Mitri poteva essere uno dei più grandi pugili di ogni tempo… Con un po’ di equilibrio e di fortuna». Con noi, giovanissimi cronisti, il campione decaduto si fermava a chiacchierare, secondo il suo stile: desiderio di risultare simpatico e di imporsi, ma senza vanterie. La sua rovina erano state, sempre, le donne. Un giorno Mitri ci confidò che qualche volta si appostava all’aeroporto di Fiumicino e abbordava le turiste straniere. Tiberio era consapevole del suo fascino. Non ho mai capito se le sue confidenze fossero invenzioni in linea con la sua leggenda. «Quattro o cinque fingono di non sentire, tre o quattro si incazzano pure. Ma una ci sta, questa è la media».
Jake LaMotta, il campione del mondo, il suo grande avversario, disse una volta: «Magari fossi bello e sfacciato come Mitri!» Ma anche, feroce: «Come pugile è uno normale, senza equilibrio. Mai visto un campione di boxe senza equilibrio».
Un giudizio superficiale, come il nostro approccio di cronisti arrogantelli, quando lo prendevamo in giro. In seguito ho capito che Tiberio Mitri è stato un personaggio eccezionale, non solo nello sport, ma nella vita aspra e dura che il destino gli aveva riservato. Poteva essere il protagonista di un romanzo o di un film, se avesse trovato un narratore all’altezza. Una grande occasione l’aveva avuta. Quando alla fine della carriera si era improvvisato attore: particine e anche qualche ruolo importante. Michelangelo Antonioni gli propose la parte di protagonista ne II grido. E lui? Rifiutò. Non gli piaceva, disse senza mezze parole, il ruolo «del cornuto».
Mitri, all’anagrafe Primo Tiberio, era nato a Trieste il 12 luglio 1926. Subito un’infanzia orribile. Il padre, alcolizzato, morì prestissimo. La madre lavorava in un’osteria e lo affidava a una donna che, con il bimbo in braccio, chiedeva l’elemosina e lo pungeva con una spilla per farlo piangere e impietosire i passanti. Da ragazzo, si aggregò a una banda di balordi. Il capo era un teppistello che si divertiva a uccidere gatti e lucertole dandogli fuoco. Furterelli, scippi, bravate: Tiberio si era specializzato come ladruncolo di maniglie d’ottone e di rame. Presto fini in riformatorio. Per sua fortuna, riuscì a sottrarsi dal partecipare a un furto organizzato nell’abitazione di una ragazza. Il teppista finì in carcere, Tiberio si salvò e casualmente finì in una palestra dove si faceva pugilato. Non gli piaceva lavorare, ma ci provava: cromatore, panettiere, radiotecnico. Ebbe un’esperienza avventurosa in guerra, riuscì a salvarsi miracolosamente dalla deportazione in Germania.
Quanto alla boxe, dopo 15 giorni di palestra lo buttarono sul ring per il primo incontro. Non ebbe il coraggio di rifiutare. Non sapeva niente, non gli avevano insegnato niente. Aveva 13 anni e gli avevano falsificato i documenti. Si batté con coraggio:mulinava i pugni, finì pestato a sangue, ma non andò al tappeto. Prima sconfitta. Secondo incontro, un pareggio. Poi cominciò a vincere. E nell’ambiente lo guardavano con ammirazione. Aveva una precisa vocazione, era naturalmente elegante, imparava tutto subito e da solo.
La carriera di Mitri, così, cominciò in modo entusiasmante. Al debutto da professionista, nel 1946, stende per ko un più quotato avversario. E nel 1948, a soli 22 anni, diventa campione italiano dei pesi medi. È un’ascesa trionfale. Appena un anno dopo conquista il titolo europeo, battendo il belga Cyriel Delannoit.
Nel 1950 è già famoso, guadagna bene, è popolarissimo. Si trasferisce in America con il progetto di puntare al campionato del mondo, ogni traguardo sembra alla portata dei suoi guantoni. Invece, la sua vita è un’altalena continua. In America la fortuna lo abbandona. Le coincidenze negative sono tre. Il primo errore, forse inevitabile, è quello di lasciarsi cooptare, con leggerezza, nel giro della mafia italoamericana, quella che controlla i pugili, gli incontri e le scommesse. Sul ring Tiberio è un campione, nella vita privata è un giovanotto come tanti, ambizioso e inesperto. Il secondo errore è solo suo: si sposa troppo presto, per di più con una donna di fortissimo carattere, Fulvia Franco, ex miss Italia, tanto bella quanto ambiziosa. Segue Tiberio negli States, sogna Hollywood e il successo nel cinema. Mitri è geloso e di più: è possessivo, ma non rinuncia a ogni avventura possibile. Le donne gli piacciono, ma non sopporta i capricci e il carattere, per nulla remissivo, di Fulvia. E per gli allenamenti è un disastro.
Così si arriva alla terza coincidenza negativa. Jake LaMotta ha in programma un incontro con un altro sfidante, che all’ultimo momento si defila per un. infortunio. Il giro mafioso, che sta svezzando Mitri, va per le spicce: se la sente di incontrare il detentore del titolo mondiale? Tiberio accetta. Probabilmente non gli sarebbe stato consentito dire di no. Ma lui è arrivato a New York sognando quel traguardo! Non gli importa di non essere ancora maturo. E di non essersi allenato com’era indispensabile: la tormentosa gelosia verso Fulvia, le liti, il pensiero costante, le estenuanti telefonate notturne, l’impossibilità di concentrarsi. Con LaMotta, Mitri ha molti punti in comune: tutti e due lo stesso segno astrologico, cancro, tutti e due una moglie bella, inquieta, sfrenatamente ambiziosa. Jake ha acconsentito ad avere sempre a fianco la sua mogliettina, Tiberio – assediato da Fulvia Franco – non vuole o, forse, non può imporsi. La sfida per il campionato mondiale è dunque arrivata troppo presto.
La sera del match, al Madison Square Garden, Mitri non è tranquillo né in forma, e tuttavia resiste al campione per 15 durissimi round. Perde, dignitosamente, ai punti. LaMotta, chiamato «la tigre del Bronx», respinge l’assalto. Si è scritto che il capo mafia – Frankie Carbo – che aveva spinto Mitri alla sfida mondiale avesse scommesso su di lui, ma dopo un paio di round puntò su LaMotta. La delusione fu devastante e da quel giro di altalena Mitri, appena ventiquattrenne, scese con il morale a pezzi. L’esperienza americana finì male: ombre, solitudine, amarezze. Lo avevano universalmente considerato il successore di Marcel Cerdan, famoso per la qualità sul ring e anche per la storia d’amore con Édith Piaf. Nel 1950 Mitri aveva sposato Fulvia, in seguito anche lei delusa dal sogno americano, e nel ’51 era nato un figlio, Alessandro. Solo nel 1954 Tiberio riuscì a tornare in Italia. Si separa da Fulvia: alla radice c’è la sua compulsiva gelosia, unita alla vita libertina. In più, si mormora, le sue maniere violente. E tuttavia ecco un altro giro vincente. Sfida il temibile Randy Turpin. Il successo è strepitoso, imprevedibile: dopo pochi secondi Turpin è battuto, ko tecnico. E Tiberio è di nuovo al centro delle attenzioni sportive, mondane, mediatiche. Ma dura poco… Cinque mesi e perde la corona contro Charles Humez.
È finita con il pugilato. Il 21 settembre 1957 Mitri annuncia il suo ritiro definitivo dal ring: 101 incontri, 88 vittorie, sette pareggi e sei sconfitte. Dieci anni dopo, più o meno quando veniva a trovarci nella redazione del Corriere dello sport, ricordava ciò che aveva dichiarato pubblicamente: «Avevano organizzato una festa a Trastevere per me. E annunciai il mio ritiro. Capivo che era un addio al mio mondo, alla fama e al denaro… Tutto era passato in un attimo. Mi avevano liquidato Jack, il toro, e Humez, il minatore. Qualcuno aveva trovato scuse per le mie sconfitte. Io no. Mai. Bisogna essere onesti con sé stessi. Non ce l’avevo fatta a superare ostacoli più grossi…».
C’è per lui un altro lungo capitolo: il cinema. Arruolato per la celebrità e la bellezza: lo chiamavano «faccia d’angelo», «l’angolo biondo», «il seduttore». Diciassette film, nel 1959 perfino nel cast de La grande guerra con Vittorio Gassman e Alberto Sordi. Cronache dei giornali, copertine, partecipazioni in tv ai programmi di varietà, gossip, infinite conquiste femminili… Vent’anni di vita spericolata: alcol, droga, depressione ed euforia, amicizie equivoche, violenze sulle compagne. Un’esistenza bruciata, vinsero i demoni. Della cocaina disse: «È una fregatura che non finisce mai. Avevo cominciato nella boxe, a piccole dosi. Difficile smettere, tifa perdere la volontà e il pisello…». Si era legato a Helen de Lys Meyer, cantante e attrice americana. E nel 1967 nasce la sua seconda figlia, Tiberia. La gelosia torna a esplodere, la relazione finisce in modo burrascosa, l’ex campione è condannato a 23 giorni di carcere a Regina Coeli, accusato di aver picchiato Helen. Poi, nel 1979, un altro amore con Marinella Caiazzo, insegnante più giovane di 20 anni. Lei aveva lasciato marito e figli per andare a vivere con Tiberio in una roulotte a Firenze. Ma anche Marinella dopo 20 anni di passione e furore lo lascia, esasperata dalle violenze. Il dolore più atroce che tormenta l’ex campione, è legato alla fine dei due figli: Alessandro muore per droga a 30 anni, poi Tiberia se ne va distrutta dall’Aids. Mitri è ormai un uomo rovinato. Le sue facoltà mentali sono logorate dai traumi del ring, infine dall’Alzheimer. Non ricordava nemmeno la morte del figlio. Chiedeva all’amico Nino Benvenuti perché suo figlio non andasse più a trovarlo. Aveva una modesta pensione, spesso si dimenticava di incassarla e chiedeva prestiti.
Alle 6.48 del 12 febbraio 2001, Tiberio Mitri, 74 anni, fu travolto da un treno sulla linea Roma-Civitavecchia. Camminava, presumibilmente in stato confusionale, lungo i binari di Porta Maggiore, due chilometri dopo la stazione Termini. Nessuno sa se fu un suicidio o un incidente. Così, nel mistero, si concluse la sua vita infelice, da artista maledetto. Un giorno aveva detto: «Tutto ciò che si costruisce nella vita si può distruggere in dieci secondi».