Come me era malato di gioco ma perdeva con il sorriso
Grandissimo regista, malinconico e autoironico. L’azzardo era un modo per placare il suo tormento interiore. In una serata lasciava sul banco l’incasso di una tournée teatrale

Vittorio De Sica
(di Cesare Lanza per LaVerità) Ci sono molti aspetti, nella vita di Vittorio De Sica, che mi hanno sempre affascinato. Mi soffermo su quello meno importante (molto suggestivo, però, per me), la sua passione per il gioco, che condividevo senza misura all’epoca – e forse anche per giovanile spirito di imitazione, visto che tra me e il grande artista c’erano quarant’anni (per l’esattezza 41) di differenza. E devo confidarvi correttamente una mia trasgressione alla regola che mi sono imposto, in questa rassegna domenicale di grandi personaggi di una volta: ho sempre incentrato i miei ricordi su coloro che ho conosciuto personalmente, descrivendo le mie impressioni. De Sica non l’ho frequentato e neanche incontrato, se non occasionalmente, giustappunto vicino ai tavoli verdi, nei casinò.
E tuttavia non ho resistito alla tentazione di scriverne, comunque: lo considero, come del resto mezzo mondo lo apprezza, un maestro del cinema, di immensa ed eclettica qualità. Quanto al gioco d’azzardo, lo vedevo a Montecarlo e a Sanremo, a Saint Vincent e Venezia. E con i miei figli ho scherzato, quando loro mi hanno preso in giro perché, leggendo le interviste dei figli di De Sica, hanno scoperto che ogni estate il grande attore e regista proponeva in famiglia: «Dove volete andare questa volta? Scegliete la vacanza che più vi piace!». E, però, la scelta era ristretta alle città in cui i casinò erano rinomati e popolari. Esattamente ciò che, per qualche lustro, sciaguratamente facevo anch’io, con le stesse bonarie parole, al momento di decidere il luogo delle vacanze.
Negli anni Cinquanta e Sessanta i casinò non avevano ancora scopiazzato la moda in seguito imposta da Las Vegas e Atlantic City slot macchine e giocatori d’ogni risma – ma erano luoghi ben frequentati, c’erano feste da ballo con l’obbligo dello smoking per i maschi e del vestito lungo per le signore. Si potevano incontrare celebrità come Gianni Agnelli, il re Farouk che accettava qualsiasi puntata, imprenditori famosi come Giovanni Borghi, il «cumenda» fondatore della Ignis; attori e attrici come Elizabeth Taylor, Tyrone Power, Omar Sharìf gentilissimo, che si rosicchiava di continuo le unghie, Eduardo De Filippo. De Sica non frequentava solo i casinò italiani o quelli della Costa Azzurra: giocava in tutto il mondo. Mario Puzo lo cita come uno dei tre più grandi e accaniti giocatori nella storia di Las Vegas. Il figlio Manuel dice che il papà giocava anche quando era povero, l’azzardo era il suo modo di placare un tormento interiore. Ricordo De Sica come un giocatore educato, elegante come in ogni altra situazione della sua vita, malinconico e autoironico, come se si sentisse sempre predestinato a perdere. Una volta, alzando gli occhi al cielo dopo una puntata sfortunata alla roulette, mormorò: «Questi lampadari, queste sale monumentali, tutto è stato costruito con i nostri soldi… Dovrebbero mettere almeno una targa, per ricordarlo». Non lo fece nessuno, ma nel 2008 il Casinò di Venezia finanziò la restaurazione di uno dei suoi capolavori, Ladri di biciclette, segnalato dai giornali come un piccolo risarcimento a fronte delle sue colossali perdite.
Quanto avrà perso? Impossibile dirlo, c’è chi sostiene che si tratta di una cifra non inferiore ai guadagni che otteneva nelle sue varie attività artistiche (spesso accettò lavori che non gli piacevano, pur di poter contenere i debiti del gioco). La sua seconda moglie, Maria Mercader, racconta che spesso, in una sera, perdeva ciò che aveva appena incassato nelle serate delle sue tournée teatrali. Oltre alla mia semplice testimonianza, sono unanimi gli apprezzamenti sul suo comportamento al tavolo da gioco. Secondo Alberto Sordi, che lo ha conosciuto bene, De Sica era perfetto, elegante, e nella sfortuna privo di reazioni di malumore. «Sembrava che gli piacesse perdere, più perdeva e più si eccitava». Eugenio Scalfari lo ricorda dopo una serata puntualmente sfortunata a Sanremo: acconsentì a cantare Parlami d’amore Mariù (accompagnato al pianoforte dalla mamma di Eugenio), per accontentare la richiesta dei suoi ammiratori. De Sica scrisse anche un decalogo, per i giocatori. Perdonatemi la vanità: anch’io ne ho inventato e pubblicato uno, nei miei libri. Il mio decalogo è incentrato su consigli di modesta saggezza, per evitare di farsi scorticare dal banco; quello di De Sica è un meraviglioso e utopistico manuale sull’indispensabilità di una corretta eleganza al tavolo. Regola fondamentale: comportarsi con freddezza, sia se si vince sia se si perde, senza far trasparire le proprie emozioni. Si dice che, quando aveva perso tutto, De Sica comunque lasciava il tavolo sorridendo, dopo un baciamano alle signore e una congrua mancia ai croupier e ai valletti.
Su De Sica sono stati scritti molti libri. Oltre a quelli, ben conosciuti, del figlio Manuel e di Giancarlo Governi, mi è molto piaciuto La mia vita con Vittorio De Sica, scritto da Maria Mercader. Proverò a riassumere la mia stima, che ho già definito immensa, in tre motivazioni, per me fondamentali. La sua straordinaria versatilità, nel teatro e nel cinema, come attore e regista. La sua – rarissima – qualità di brillare e di imporsi sia nell’intrattenimento sia nel drammatico neorealismo, di cui è stato riconosciuto il padre (insieme con Roberto Rossellini e Luchino Visconti). E infine il successo leggendario: quattro premi Oscar!
Vittorio Domenico Stanislao Gaetano Sorano De Sica era nato a Sora (Prosinone) il 7 luglio 1901. Quaranta regie, 150 ruoli da attore, innumerevoli recite a teatro. Come attore la sua popolarità diventò eccezionale grazie all’interpretazione del maresciallo Carotenuto, instancabile corteggiatore di Gina Lollobrigida, in Pane amore e fantasia. Eppure, in gioventù, sembrava destinato a una carriera impiegatizia, nella Banca d’Italia. Invece, casualmente, a partire dal 1926 cominciò a collezionare una serie di particine, a teatro e nel cinema: brillava per l’immediata simpatia che riusciva a provocare, grazie a un sorriso smagliante e all’affabilità. Era un seduttore nato, irresistibile: gli vengono attribuite decine e decine di storie sentimentali. Puntualmente si innamorava, novello Casanova, delle attrici con cui lavorava nei film o a teatro, oltre alle avventurette di qualche giorno o di qualche ora con le ammiratrici. Nel 1937 sposò Giuditta Rissone, attrice affermata in un’importante compagnia teatrale, e con lei ebbe una figlia, Emy. Nel 1942 conosce la Mercader, nata a Barcellona in una ricca e austera famiglia, costretta a fuggire dalla Spagna, dapprima a Parigi e poi a Roma, per le vicende legate alla guerra civile.
È l’inizio di un romanzesco legame – la Mercader era una giovane attrice molto ricercata – dapprima clandestino e poi pubblico, chiacchieratissimo, senza segreti. Ma Vittorio non riesce a separarsi dalla Rissone, anche se Maria si consolida sempre più come il suo unico e vero grande amore. Da lei ha due figli, Manuel e Christian. Nel 1954 Vittorio prima divorzia e cinque anni dopo sposa Maria in Messico, ma il divorzio e le nozze sono nulle, per la legge italiana. Solo nel 1968 De Sica, che ha ottenuto la cittadinanza francese , può sposare regolarmente – a Parigi l’amante di tutta la vita. Per tanti lustri, il gran seduttore era riuscito a ottenere sia da Giuditta Rissone, sia da Maria Mercader l ‘ accettazione (grazie al suo fascino e alla dialettica) della coesistenza di quel duplicò rapporto. È rimasto celebre l’attaccamento di Vittorio alle due famiglie, con doppi pranzi e doppi festeggiamenti ai pranzi di Natale e perfino a Capodanno, grazie all’orologio messo avanti di due ore, una finzione necessaria per i bambini.
La prima svolta artistica di De Sica avviene subito dopo la guerra. Dal genere brillante delle commedie con i telefoni bianchi al dramma dell’Italia straziata: con due capolavori del neorealismo, Sciuscià (1946) e Ladri di biciclette (1948). La collaborazione con il grande Cesare Zavattini è eccellente, ma i film sono male accolti dal pubblico, denigrati dai critici e da un’opinione pubblica che forse vuole girare pagina dopo gli orrori e le miserie della guerra mondiale. Quei due capolavori, che hanno scritto la storia del cinema, furono invece osannati all’estero, tutti e due onorati con l’Oscar e con un successo insperato di pubblico (per Sciuscià 1 milione di dollari d’incasso negli Stati Uniti). E nel 1951 Miracolo a Milano. E non basta!
Altro capolavoro assoluto, il più alto, è Umberto D (1952): punto fermo, magistrale, nella storia del neorealismo. Puntualmente ignorato dal pubblico e incompreso – all’uscita nelle sale – dai critici (che spesso, notoriamente, sono quelli che capiscono le cose qualche anno dopo). Ma il problema più pesante arriva dai produttori, che spingono il maestro a tornare alla leggerezza (il riferimento strepitoso è Gli uomini, che mascalzoni). Non è proprio così, addio sì al neorealismo, ma il talento di De Sica è senza confini: firma ancora due film importanti, La ciociara, dal romanzo di Alberto Moravia e II giardino dei Finzi Contini dal romanzo di Giorgio Bassani (quarto Oscar, il terzo è per Ieri, oggi, domani).
De Sica muore in Francia, in una clinica a Neuillysur-Seine, stroncato da un tumore a un polmone, il 13 novembre 1974. Nel libro di ricordi di Maria Mercader (sincero, anche crudo, veristico) ho trovato alcuni aspetti della personalità di Vittorio De Sica, che mi inteneriscono . Era, ad esempio, un uomo gelosissimo: tormentava Maria con estenuanti interrogatori. Non credeva che fosse arrivata vergine all’unione con lui. E, nelle infinite discussioni, arrivò perfino agli schiaffi: una volta, per il sospetto di una relazione di Maria con Luchino Visconti, poi per un presunto idillio con il produttore Peppino Amato. E andò fuori testa perché la sua donna amatissima, e innocente, per provocarlo, gli disse che aveva ammirato un pene maschile. Vero, era quello di Amedeo Nazzari, ubriaco, che per scherzo si presentò nudo davanti a lei. Maria sapeva però ricondurre Vittorio alla ragione. E quando De Sica, in imbarazzo, non sapeva più cosa replicare e come scusarsi, balbettava: «Che c’entra? Che c’entra?». Proprio come uno di noi, comuni mortali.