La Bce cambia agenda. Ora aumento dei salari e più occupazione

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Una sorpresa dalla Svezia: l’obiettivo di inflazione viene alzato al 3% e i tedeschi si allarmano

Immaginate di accorgervi che l’automobile ha il tachimetro guasto. Sapete che sulla strada davanti a voi i radar che fanno le multe non sono segnalati prima. In una situazione simile si trovano oggi i banchieri centrali del mondo. E quanto solleveranno il piede dall’acceleratore riguarda tutti, significa più o meno posti di lavoro, con l’Italia in una situazione particolarmente delicata.

Per questo i discorsi di Janet Yellen e Mario Draghi ieri sono stati seguiti con tanta attenzione, benché non se ne attendessero immediate novità. Si è capito un po’ di più come le due grandi banche centrali, la Federal Reserve e la Bce, ragionano sui loro cruscotti impazziti, dove le spie di allarme accese potrebbero anche non indicare guasti, e viceversa.

Per la prima volta dalla grande crisi di 10 anni fa tutte le economie mondiali sono in ripresa. Ma arrivano segni di una euforia finanziaria simile a quella che alla crisi portò: le quotazioni di Wall Street sono a un livello simile a quello della bolla del 2000, i tassi di interesse sono bassi nel mondo anche sugli impieghi rischiosi.

Eppure negli Usa i salari sono quasi fermi benché il lavoro non manchi. Degli ormai 8 anni e 2 mesi di ripresa economica hanno beneficiato solo alcuni, non altri. Mario Draghi individua questo problema come centrale anche altrove: non basta la crescita economica, occorrono anche equità, sicurezza, rispetto delle leggi.

Una delle spie di pericolo lampeggia (rischio di caduta della Borsa) l’altra, politicamente più importante, è spenta (rischio inflazionistico da salari). Occorre rallentare la velocità o no, diminuendo l’azione espansiva delle banche centrali? La Fed americana ha già cominciato, con due aumenti di tassi; discute su quanto debba proseguire, forse in dicembre.

Yellen valuta che rischi dalla finanza per ora non ce ne siano, purché le regole per tenere a freno le banche non vengano allentate. D’accordo con lei, Draghi sostiene inoltre che per rendere la globalizzazione più giusta occorre che i Paesi cooperino, che le organizzazioni internazionali siano forti. Entrambi, in sostanza, vedono pericoli nei propositi di Donald Trump.

Nell’area euro l’indicatore che la Bce guarda per statuto, il tasso di inflazione, non dà segni di risalire al livello di sicurezza (appena sotto il 2% annuo) nonostante l’azione espansiva, sgradita alla Germania che ne ha meno bisogno, sia stata così massiccia da sfiorare ora limiti tecnici.

Il dilemma europeo è qui: decelerare sarà inevitabile, senza sapere davvero quanto occorra. Quanto è importante che l’inflazione resti a lungo inferiore al 2%? Circolano due risposte. La prima, sviluppata in una istituzione conservatrice come la Bri di Basilea, è che non è più importante.

Ovvero la crescita è lenta per motivi profondi, l’inflazione è modesta per influenze dal mondo che è vanno contrastare; pazienza se i salari stanno fermi, se in alcuni Paesi i disoccupati sono ancora tanti. Draghi respinge questa visione: non accetta di rassegnarsi. Come Yellen e altri banchieri centrali, ritiene ancora che far salire l’inflazione serva alla crescita.

Per questo a Jackson Hole riceve una attenzione inattesa il governatore della Banca di Svezia Stefan Ingves. Nel suo Paese, dove la ripresa è vigorosa grazie a scelte monetarie fortemente espansive, dall’ultimo mese l’inflazione ha superato la soglia del 2%, finora anche lì ritenuta segno di allarme.

Ma la Banca centrale svedese – la più antica del mondo, apprezzata per serietà – non se ne preoccupa; vuole anzi allargare il suo indicatore a una fascia tra 1 e 3%. I tedeschi, abituati a imputare simili rilassatezze ai latini, ora temono che i loro compassati vicini del Nord facciano scuola.

Draghi insiste su quanto sia importante aggiustare di continuo gli strumenti per orientare le scelte. Il messaggio che attraverso di lui l‘Europa manda al mondo è che l’equità non si difende ripiegando ciascuno dentro la propria nazione.

Purtroppo sono le contrastanti esigenze delle nazioni a costringere la Bce in un sentiero angusto: che fare se i disoccupati sono a un minimo in Germania, ancora troppi da noi? Non ci saranno frenate brusche, nessuna risalita repentina dei tassi che metterebbe in difficoltà l’Italia più di tutti; ma se la politica europea non si sbloccherà dopo le elezioni tedesche del 24 settembre, saranno guai.

Stefano Lepri, La Stampa