Barcellona sanguina, Napoli si arrovella sulla minaccia terroristica, il sindaco fa riposizionare tre fioriere tra Via Toledo e Piazza Trieste e Trento a protezione dei pedoni. Lì, nel marzo 2001, le forze dell’ordine ostruirono una delle vie di fuga del corteo contro il G7; fu la mattanza che fece da preludio al G8 di luglio. A Genova ebbe luogo il primo car jihad sul territorio della Repubblica Italiana: un blindato Iveco A55 in dotazione ai Carabinieri si lanciò contro i manifestanti. Molti alla deriva. Molti altri sicuri di un approdo: la guerra non è il fallimento della politica, bensì il pilastro di un sistema economico che non può funzionare senza enormi immobilizzi di fondi statali a favore di possenti imprese private. E l’industria bellica è il volano dell’innovazione tecnologica necessaria a orientare gl’investimenti verso i settori industriali nei quali invenzioni pionieristiche tutelate giuridicamente dai brevetti ricreano il monopolio come condizione ineludibile per ristabilire esorbitanti livelli di profitto altrimenti minacciati dalla concorrenza. Due mesi dopo, in risposta al massacro del World Trade Center, gli Usa incrementarono la spesa militare che era crollata in seguito alla fine della Guerra Fredda. Bush jr chiamò la Nato a fare la sua parte; prima la guerra in Afghanistan nell’autunno del 2001, poi in Iraq nel 2003. Tuttavia, la crisi economica del 2008/2009 ha costretto gli stati europei a ridurre il budget per la difesa. Obama si è lamentato a più riprese del costo sostenuto dai contribuenti americani per la guerra al terrore.
L’insofferenza è montata nel biennio 2014-2015, quando l’Isis ha rivendicato gli attentati in Europa, espandendosi in Iraq e in Siria. Gli alleati europei hanno espresso in forma non vincolante la volontà di portare al 2% la quota del Pil destinata alle spese militari, dopo che gli Usa li avevano redarguiti, sollevando dubbi sulla corretta rendicontazione dei loro budget. Al 2016, gli Usa allocano il 3,6%, il Regno Unito poco meno del 2%, la Francia l’1,8%, la Germania l’1,18%, l’Italia lo 0,95%, la Spagna lo 0,89%. Lo scorso maggio, in missione in Europa, Trump è stato categorico: il 2% non è negoziabile.
L’esigenze della Nato e i vincoli di bilancio dell’Ue, dunque, s’intersecano. Le economie più solide offrono garanzie in termini di capacità di sostenere lo sforzo bellico nel lungo periodo. Spagna e Italia, invece, mettono sul piatto della bilancia la loro posizione nella geografia mediterranea dei flussi migratori, in vorticoso mutamento dopo che l’eliminazione di Gheddafi nel 2011 ha trasformato la Libia nel collo di bottiglia di un unico gigantesco fiume umano che da sud, est e ovest dell’Africa, confluisce sulla costa a poche miglia nautiche dalle acque italiane. L’Italia ha provato, in modo maldestro e senza ricevere adeguate rassicurazioni dai partner europei, a fare di necessità virtù con lo ius soli che, combinato alla Legge Minniti-Orlando, offrirebbe una soluzione funambolica: attrarre i flussi via mare, estendere il periodo di residenza in Italia per le migrazioni in transito verso altri paesi, ma gestire i deflussi in un regime giurisprudenziale più agile perché più autoritario; in cambio, far gravare il peso economico e geopolitico dell’accoglienza per controbilanciare l’aumento del rapporto deficit/Pil, già al 132,6% e oberato dalla proibitiva soglia del 2%. Se lo ius soli rimarrà lettera morta, l’Italia, come la Spagna che fin qui si è mostrata ostile agli sbarchi, non avrà altro da offrire che ulteriori quote del Pil. E i mezzi di ricatto per forzare l’incremento di stanziamenti a favore dell’industria bellica sono tristemente noti.
Sempre meglio che avere la guerra in casa, no? Se non altro in Via Toledo si potrà fare shopping anche ora che la paura mette tutti dalla stessa parte della fioriera, sebbene chi continua a non scorgere la necessità strutturale della guerra dietro il delirio stragista di matrice religiosa resta, oggi come allora, dalla parte sbagliata della barricata.
Gennaro Ascione, Corriere del Mezzogiorno (Corriere della sera)