Lo scandalo che ha travolto la Corea del Sud tra economia e politica. Tra le accuse: corruzione e appropriazione indebita. Ora il Paese aspetta il processo all’ex presidente
Colpevole. Lee Jae-yong, il vicepresidente e erede designato all’impero di Samsung, finisce dietro le sbarre, condannato a 5 anni, e la Corea del Sud che in prigione ha già mandato l’ex presidente Park Geun-hye, ora in attesa di giudizio, vive un’altra pagina di storia. Il processo del secolo, com’è stato ribattezzato qui, è finito.
Gli elicotteri della polizia sorvolano il Central District Court di Seul mentre più di ottocento poliziotti fanno da scudo tra i fan dell’ex presidente, con la condanna di Lee ora ancora più nei guai, e la gente venuta a godersi lo spettacolo del potente alla sbarra già prima delle 2.30, l’orario previsto, per la sentenza, sotto il sole di Seul che sembra non dare tregua. Mai tribunale fu più affollato, mai tensione più alta, mai la gioia dei nemici del potentissimo più grande, malgrado la decisione del giudice di non trasmettere la sentenza in diretta, come pure una decisione della Corte Suprema arrivata in extremis aveva ipotizzato possibile.
L’erede dell’azienda che ha scalzato Apple dal trono dei profitti era finito in cella nel febbraio scorso nell’inchiesta che ha fatto tremare la Corea del Sud come finora neppure le minacce del Nord. La procura aveva chiesto 12 anni rinfacciandogli ben cinque capi d’accusa: corruzione, appropriazione indebita, trasferimento illegale di fondi all’estero, occultamento delle prove e falsa testimonianza.
Lee aveva sempre negato tutte le accuse. Fino a giurare in aula che proprio lui, il capo dei capi, non poteva conoscere tutte le decisioni prese da un colosso come Samsung, un labirinto incredibile di 60 aziende incrociate tra di loro: una giustificazione che in fondo non è il massimo per l’uomo che per famiglia e per educazione era stato chiamato a tenere comunque le redini del potere. Le redini che il 49enne rampollo ha sempre amato di più sono state invece quelle dei cavalli: che l’hanno inguaiato fino a farlo finire nelle grinfie di una ben altra cavallerizza, Choi Son-il, la sciamana che secondo gli investigatori proprio attraverso le sue associazioni equestri ha costruito il sistema di mazzette che ha portato in galera lei stessa e la presidente Park.
L’accusa era di aver versato almeno 38 milioni per ottenere il sì del governo alla fusione tra due delle 60 aziende: uno sposalizio che avrebbe garantito al rampollo di assicurarsi il controllo sul colosso e poter così succedere al padre Lee Kuhn-ee, da tre anni immobile in un letto di ospedale, forse in coma, forse addirittura morto come – solo gaffe? – lo stesso figliolo si era lasciato scappare in aula.
La sentenza apre ovviamente un nuovo capitolo anche nella storia della compagnia, che in questi giorni sta festeggiando il lancio del nuovo Galaxy Note 8 e soprattutto la trimestrale record da 10 miliardi di dollari. Per non parlare del futuro della presidente Park. “La chiave di tutto è la corruzione”, dice Yang Jae-Sik, uno dei falchi della procura, che dall’inizio ha legato il destino del corruttore-Lee a quello della corrotta-Park. La chiave di tutto è appunto lì: e a ottobre, quando in questo stesso tribunale andrà in scena la nuova puntata, protagonista l’ex presidente e la sciamana, vedremo se quella chiave riuscirà ad aprire, o a chiudere, anche l’ultima porta di questo incredibile scandalo.
Angelo Aquaro, Repubblica.it