L’uomo che perse Montanelli ma lanciò Pier Paolo Pasolini
Il direttore del «Corriere della Sera» licenziò la firma migliore e assunse lo scrittore. Conquistato dalla Gran Bretagna, ogni pomeriggio alle 17 beveva il tè come gli inglesi
1) Perché Ottone licenziò Indro Montanelli? Indro mi concesse una furente intervista, per II Mondo, nella quale annunciava, con aspre critiche verso Piero e la proprietaria Giulia Maria Crespi (da lui definita «Giuda»), il suo progetto di fondare un anti Corriere. A suo parere, il «Corrierone», con una linea sinistrorsa, aveva tradito le aspettative del tradizionale pubblico borghese, moderato. Il licenziamento in tronco apparve inevitabile, ma fu traumatico: di recente, cioè molti lustri dopo, sia la signora Crespi sia Ottone hanno ammesso di aver fatto un errore.
2) È vero che Ottone ebbe il merito di lanciare in prima pagina Pier Paolo Pasolini, un grande protagonista della cultura, però assolutamente lontano dall’immagine e dalla storia del Corriere? Vero. Tuttavia il merito principale fu del vicedirettore Gaspare Barbiellini Amidei, che volle con insistenza l’ingaggio di Pasolini. Ottone in precedenza aveva anche ricevuto una lettera di insulti da Pier Paolo, furioso perché un suo intervento non era stato pubblicato. Ma Piero non era permaloso, gli interessavano esclusivamente la qualità e il successo del giornale. Quando si convinse che il celebre poeta/scrittore/regista poteva giovargli, non esitò – senza entusiasmo ad assumerlo.
3) È vero che Ottone non pubblicò il nome di Montanelli in prima pagina, quando Indro (che nel frattempo aveva fondato e lanciato con successo II Giornale) fu gambizzato dalle Brigate rosse? Questa è la contestazione più severa e diffusa che viene tuttora rivolta a Pierino. Ma le cose non andarono esattamente così. Quel giorno Ottone si trovava a Venezia per una conferenza, la composizione della prima pagina gli fu appena segnalata, la titolazione fu decisa da uno dei vicedirettori, presumo Michele Tito. E Montanelli non apparve nel titolo di apertura, ma comunque fu ricordato in un’intervista sottostante, che gli fece Enzo Biagi in ospedale. Storie vecchie, al centro di infinite polemiche.
In questi miei ricordi vorrei incentrare invece l’attenzione su ciò che di Ottone è (forse) meno conosciuto: i comportamenti, lo stile, le abitudini, alcune sue immodificabili convinzioni. Mi assunse nel 1969 – quando dirigeva il Secolo XIX – come caposervizio allo sport: il mio nome gli fu suggerito da Gino Palumbo, che all’epoca era il capo detto sport al Corriere della sera. E sono stato al suo fianco fino al 1972, quando andò a dirigere il Corriere della Sera, in sostituzione di Giovanni Spadolini. Divenni subito il suo pupillo. In giornalismo ho avuto due soli direttori e maestri: Antonio Ghirelli, che mi fece avere il primo contratto e mi insegnò qualsiasi cosa, e di più; e Piero Ottone, che non ebbe esitazioni a promuovermi, a valorizzarmi, a farmi decollare. Era stato Ghirelli a insegnarmi a disegnare le pagine, a fare i titoli, a «chiudere» in tempo, in modo da non perdere treni e aerei, nei tempi previsti per la distribuzione. Il primo giorno Piero mi invitò allo Yacht club di Genova, invitandomi a dargli del tu e intrattenendomi da pari a pari. Notai che aveva assaggiato un gin tonic. «Il primo giorno di lavoro è il più bello e promettente: «tutto sembra facile», mi disse con ironia. «I problemi arrivano dopo». Non era arduo però, il mio incarico: il «Decimonono», come lo chiamano a Genova, era un giornale fatto in modo antiquato. Si favoleggiava che il mio predecessore allo sport, alla fine di una Milano-Sanremo, fosse imbarazzato perché la prestigiosa gara era stata vinta dal belga Willy Planckaert. Allora si lavorava in tipografia e siccome Planckaert era un titolo troppo lungo e non entrava nella riga, lui impose disinvoltamente all’impaginatore di togliere la t finale («Non se ne accorge nessuno»). Ero il più giovane in redazione, Ottone lanciava una novità dietro l’altra e io lo assecondavo con entusiasmo, mentre gli anziani redattori consideravano lui con diffidenza e rispetto, e me con antipatia e ironia. Ghirelli mi aveva insegnato a inserire nei titoli verbi forti, per coinvolgere i lettori, e così facevo. Ricordo che un vecchio vice caporedattore, Armando Vazzoler, un giorno mi disse con ironia, in un genovese intraducibile: «Oggi non c’è nessuno che trema o grida o urla, in pagina?». In riunione Ottone diceva: «Sfogliamo il giornale ed è tranquillo come una camomilla… Poi arriviamo allo sport e prendiamo un pugno nello stomaco!». La prima volta gli chiesi: «Debbo alleggerire, attenuare?». E lui: «No, per carità!» Con i giornalisti era educatissimo, anche nelle osservazioni più severe. Qualcuno diceva che mi usasse come una clava, per tenere in pugno, con il mio carattere duro, gli anziani recalcitranti: in particolare, quando mi promosse caporedattore. Non posso escluderlo, ma ovviamente preferisco pensare che apprezzasse, soprattutto, la mia capacità di fare il giornale come lui desiderava. Dopo il ricordo di Planckaert mutilato della t, ecco un altro ricordo gustoso. Ero diventato caporedattore e i capiservizio venivano a farmi vedere i titoli delle loro pagine. L’anziano, e gentile, caposervizio del settore marittimo mi portò questo titolo, sapendo che mi piacevano gli slogan scherzosi, brillanti: «Cacciatorpediniere impetuoso varato a Riva Trigoso». Gli dissi rispettosamente che i titoli in rima potevano passare una volta ogni tanto nello sport o negli spettacoli, mai nelle cronache marittime, sacre in una città come Genova. «Va bene, lo rifaccio». E dopo mezz’ora ritornò: «Varato a Riva Trigoso cacciatorpediniere impetuoso». Capite perché la mia ascesa a Genova fu rapida e facile?
Tra molte altre, Ottone aveva queste quattro regole fondamentali: i fatti separati dalle opinioni; il rispetto assoluto verso i lettori; la puntualità; l’attenzione per la meteorologia. La separazione dei fatti dalle opinioni è stato un valore molto contestato da giornalisti suoi antagonisti, anche illustri. Ottone era inflessibile: i fatti vanno raccontati per come sono, il giornalista non deve lasciarsi influenzare mai dalle proprie idee. Addirittura, ordinò che si pubblicassero le opinioni a parte, sotto una testatina esplicita: «Commento». Quanto ai lettori, fu il primo (per quanto ne so) a introdurre la pagina delle lettere, senza nessuna replica: «Il lettore deve avere l’ultima parola, tranne casi eccezionali. Troppo facile, per noi, rimbeccare e puntualizzare». Mi risulta che nella sua carriera rispose privatamente a centinaia di lettere di lettori, a mano: lo considerava un dovere, ma era per lui, certamente, anche un piacere. Quando si è spento, di recente a Camogli, il 16 aprile 2017 (era nato a Genova il 3 agosto 1924) molti lettori lo hanno ricordato con commozione per questa sua abitudine. Tutte queste impostazioni contribuirono ben presto a creare il mito del suo «stile», lo stile british di Ottone. La puntualità fa parte della leggenda. La nostra riunione quotidiana era fissata alle 12 e Piero esigeva la massima puntualità: un giorno ci accolse con le sue scuse, non avrebbe presenziato alla riunione perché aveva preso un altro impegno. E se ne andò. Incuriositi, ci chiedevamo quale fosse questo impegno non rinviabile. Dopo un minuto vedemmo sfilare una scolaresca di bambini delle elementari, accompagnati dalla vecchia maestra. Ottone li intrattenne per un’ora, spiegando come nasceva un giornale. Inoltre, quanto alla puntualità, arrivava sempre, dico sempre, al giornale intorno alle 9, si assentava per pranzo, alle 17 scoccava l’ora del tè all’inglese, alle 20-20.30, dopo aver visto la prima pagina, se ne andava e raramente tornava. Infine, la meteorologia: in questo Piero fu un vero innovatore, prima di lui i giornali pubblicavano qualche modesta riga, spesso erronea; lui inserì, come si usava nei giornali anglosassoni (che adorava), disegnini scientifici per me incomprensibili e previsioni più accurate. L’insieme di queste caratteristiche induceva molti a considerare Ottone come un protagonista di efferato e studiato snobismo. Niente di più sbagliato. Forse – forse – non gli dispiaceva di essere considerato snob, ma tutto ciò che faceva corrispondeva a radicate convinzioni. Poco dopo la mia assunzione lo invitai a cena, Ottone pretese che, prima, mia moglie e io andassimo a cena da lui, dove trovammo l’armatore Glauco Lolli Ghetti e l’ultimo sindaco democristiano di Genova, Giancarlo Piombino. Quando finalmente venne a cena da noi, con la moglie Hanne, come ammazzacaffè gli feci trovare un gin tonic, ricordavo che gli piaceva questa bevanda. «No», osservò Pierino, «quello è adatto come aperitivo. Dopo cena, andrebbe bene un bicchierino di porto…». Naturalmente non lo avevo, dovette accontentarsi di un cognac. Infine, una fondamentale caratteristica della sua filosofia di vita era che il lavoro non dovesse essere mai un riferimento esclusivo, il tempo libero doveva essere sostenuto con qualche altra passione . L’esatto contrario di Gaetano Afeltra che così teorizzava il giornalista ideale: bastardo, scapolo, senza figli e privo di qualsiasi altro interesse. La sua passione, notissima, era la barca a vela. Nel giorno in cui Montanelli fu aggredito dalle Br, ho già ricordato che quasi si disinteressò della confezione del giornale. Così come quando era in vacanza. «I vicedirettori servono a questo», replicava a chi lo criticava (anch’io disapprovavo). Quanto alla passione che doveva integrare il lavoro, ne parlammo spesso. «Alpinismo, paracadutismo, sciare, viaggiare… Qualsiasi cosa ti piaccia e non ti renda schiavo del lavoro e delle relative ambizioni». Gli confidai che collezionavo libri e mi attraevano le sfide nei giochi d’azzardo. «Va bene», disse sospirando. «Bene i libri anche se è un hobby sedentario. E va bene anche l’azzardo, purché non ti rovini. Gli scacchi sarebbero preferibili…». In barca a vela il suo compagno assiduo era un giornalista del «Decimonono», Beppe Barnao, esperto e spiritoso. Come tutti i grandi, Piero era bersaglio di arguzie malevoli e invidie. Potete immaginare la meschina gioia, le battute e il sarcasmo, di tanti suoi antipatizzanti, quando un giorno, con la sua amata barca, ebbe la sventura di naufragare, non lontano dalla riva.