di Cesare Lanza
Il gigante delle redazioni che voleva i giornalisti scapoli, orfani e bastardi
Estroso, grande titolista e scopritore di talenti, fu la colonna del«Corriere della Sera». Ammirato da Bettiza e Montanelli, era il confidente di tutti ma sapeva tenere i segreti
«Fermati! È morto Fleming, l’inventore della penicillina». Tra le centinaia che inventò, questo è forse il titolo più bello creato da Gaetano Afeltra, l’11 marzo 1955, in morte di sir Alexander Fleming . A mio giudizio. Invece per lui, Gaetanino, il più bello – o quello che ricordava con maggior piacere- era un altro: «Il popolo ha scelto, la storia ha scritto. È già Repubblica». A Milano Sera. «Non era un titolo falso e affrettato, coglieva lo stato d’animo degli italiani che volevano la Repubblica ancor prima di sapere il risultato», disse.
Gaetano Afeltra, Gaetanino per i suoi innumerevoli amici, era un omino meridionale amabile e affabile, simpatico immediatamente a tutti, romanticamente e letterariamente legato al suo paese di origine, Amalfi, dov’era nato nel 1915, ma irresistibilmente innamorato di Milano (fu quasi una fede religiosa) dov’era approdato nel 1934.
Quell’omino di Amalfi (penultimo di nove figli del segretario comunale) aveva sempre sognato di fare il giornalista e di poter trasferirsi a Milano, raggiungendo il fratello Cesare, giornalista al Corriere della Sera (che poi morì prematuramente, nel 1940). Quando vi riuscì, Milano gli apparve come un paradiso terrestre, tutto ai suoi occhi era meraviglioso. Afeltra di Milano parlò e scrisse sempre in termini lirici, emozionanti. Ricordi e racconti rimangono incantevoli. Mi è rimasto impresso ciò che diceva del Savini, il famoso ristorante, quando lui, giovanissimo, si intrufolava in un tavolo, «quasi come una mascotte», con scrittori e poeti conosciuti attraverso le amicizie del fratello: Cesare Zavattini, Giuseppe Marotta, Sandro Penna, Raffaele Carrieri, Eugenio Montale, Salvatore Quasimodo, «che stava lì fino alle 2 e alle 8 partiva con il treno per Sondrio perché lavorava lì al Genio civile, era geometra»; e ancora Leonardo Sinisgalli, Vincenzo Cardarelli. Un tavolo d’angolo. «A mezzanotte, dopo la Scala, arrivavano tutti i grossi nomi di Milano, congestionati dal caldo e dalle poltrone strette del teatro. Venivano a mangiare il risotto dell’1, con tutte queste donne bellissime, ingioiellate, con le pellicce». Ho ritrovato questi ricordi, tra gli altri che Gaetani nomi dedicava, nelle pagine di uno straordinario libro di Gigi Moncalvo, Milano no. Dizionario dei milanesi da buttare via.
Era il maggio del 1977, avevo lasciato la direzione del Corriere d’Informazione e, senza alcuna competenza, presi l’assurda decisione di fondare una piccola casa editrice, Milano elle. Il primo libro fu quello di Moncalvo. Mi si scusi la presunzione, le idee erano ottime, ma il risultato fu disastroso: cinque o sei libri affidati ai miei allievi del Corinf, (con Moncalvo, Massimo Donelli, Francesco Cevasco, Gian Antonio Stella, Renzo Rosati, Edoardo Raspelli e anche Guido Gerosa, che per età mio allievo non era), ben scritti e ottimamente recensiti, ma mal distribuiti e quindi invenduti. Gigi Moncalvo intervistò, sulla decadenza di Milano, quasi tutti i personaggi che allora contavano. La perla fu Afeltra, che solo a denti stretti ammetteva la decadenza e invece illuminò il libro con la rievocazione della Milano che fu, quella che aveva appagato i suoi sogni.
L’omino di Amalfi, in apparenza uno dei tanti meridionali che approdavano a Milano in cerca di fortuna, nelle redazioni si trasformava d’acchito in un gigante autorevole, con una vocazione irresistibile. Impaginatore – questo fu il primo incarico – paziente ed elegante: tagliava i pezzi, sceglieva le fotografie. Titolista inimitabile, popolare. Ma soprattutto un coordinatore illuminato, un organizzatore impareggiabile. E uno scopritore e valorizzatore di talenti, intuitivo e generoso come pochi altri. Personaggi ben più famosi e affermati di lui ne riconobbero subito l’autorevolezza, soggiogati dalla sua ispirazione: a memoria cito, trai tanti, Dino Buzzati, Indro Montanelli, Alberto Ronchey, Arrigo Levi, Enzo Bettiza. Al di là delle grandi firme, apprezzava i bravi cronisti e ripeteva che i giornalisti avrebbero dovuto essere scapoli, orfani e bastardi: come dire, senza altri affetti all’infuori del giornale.
Dopo il debutto all’Ambrosiano (si firmava Omicron), al Corriere Lombardo e a Milano Sera, ineluttabilmente arrivò al Corriere della Sera, nel 1942. Ricordo quante volte mi raccontò, durante le nostre passeggiate, quell’episodio memorabile. Affinché si possa comprendere il mio devoto rispetto, debbo dire che, quando passeggiavo con Gaetanino, la mia carrieruccia l’avevo fatta, ma quando lui fu assunto al Corriere, a Milano, era l’anno in cui io nascevo a Cosenza. Così, tanto per inquadrare il rapporto! Ero lusingato dalla sua stima e simpatia – c’erano 27 anni di differenza – e ascoltavo ciò che diceva, come fosse una divinità (e difatti lo era, del giornalismo). Dunque lo chiamò Aldo Borelli, al Corriere. Era mezzanotte e Gaetanino se la faceva addosso: il suo sogno stava per avverarsi! E subito sbottò: «Vi prego, non giudicatemi nelle condizioni in cui sono adesso. Sono troppo emozionato!». Borelli si alzò dalla poltrona e gli prese le mani: «Non abbiate timore, prima o poi vi assumeremo». Dieci giorni dopo entrò, con la tessera numero 10 dell’Ordine dei giornalisti lombardi (Montanelli aveva la numero 8).
Afeltra era un mito nel giornalismo: è deplorevole che oggi non sia ricordato come meriterebbe. Pensate: lo conoscevo solo di fama e lo cercai io, solo per curiosità, quando ero già caporedattore in un giornale di Genova, chiedendogli un appuntamento. Dovevamo incontrarci in un bar di via Manzoni: mi presentai, spudorato com’ero, con una conquista del momento. A Gaetanino, timido, piacevano molto le donne. Quindi sbirciava la mia ragazza e sottovoce voleva sapere chi fosse, se fossi sposato, avessi figli… Mi prese subito in simpatia e da allora ci incontrammo spesso. Era un garbato, paterno moralista: il mio confessore laico. Gli raccontavo tutto di me. Sapevo che tanti altri, uomini e donne, facevano lo stesso: era leggendaria, nell’ambiente, la sua segretezza! Ed era un grande ascoltatore, senza supponenza, senza predicozzi. Deplorava la mia passione per il gioco. Lo stuzzicavano le mie confidenze su donne e amori, stabili e soprattutto giornalieri. Si prendeva cura di me, come di tutti coloro che avessero qualche problema. Una volta – ero e sono ipocondriaco – lo afflissi per il mio timore di avere un tumore e lui mi portò subito, all’istante, dal più famoso oncologo, suo amico. Non avevo nulla, non mi prese in giro.
Un’altra volta, a metà anni Settanta, il Pci, in un turno di elezioni regionali, aveva superato la Dc. Eravamo invitati a pranzo da Giulia Maria Crespi. Salendo gli scaloni del bellissimo palazzo in corso Venezia, Gaetanino si fermò e mi disse: «Ce ne vorranno di elezioni, prima che i comunisti conquistino tutto questo! E se lo conquisteranno, non saranno più comunisti.» Sono passati più di 40 anni e quelle parole per me valgono,come un presagio, assai più delle analisi di insigni politologi. Qualche volta lo accompagnai dal suo barbiere in via Manzoni, Hotel de Milan, che da decenni lo radeva. Gaetanino era abitualmente un po’ pauroso, ma in quelle circostanze mostrava un coraggio incredibile. Il barbiere infatti era afflitto da un vistoso tremito alle mani, ma Afeltra gli porgeva le guance senza esitare e – miracolo! – a contatto con la pelle il polso del barbiere tornava fermo e la lama del rasoio stabile e sicura.
Del Corriere Afeltra divenne rapidamente una colonna, come confezionatore e organizzatore. Nel 1954 gli fu affidata la direzione dell’Informazione, l’edizione del pomeriggio del Corriere, dove sarei approdato anch’io, 20 anni dopo. Privo di vincoli, diede il meglio di sé: estro, fantasia, titoli indimenticabili, grandi fotografie, servizi di altissimo livello da tutto il mondo. In occasione dell’orribile morte di molti bambini, annegati in una spiaggia ligure, Afeltra inviò Dino Buzzati sul posto e respinse il suo articolo: «Voglio che tu detti a braccio, voglio sentire la tua emozione e il dolore, raccontami lo strazio delle mamme!». Buzzati stranito eseguì. Fu un capolavoro.
Vezzi curiosi, abitudini chiacchierate. Alloggiava al Principe di Savoia e dormiva lì, mai a casa, in via Manzoni. Con la moglie e la figlia cenava spesso al Santa Lucia. Diresse poi Il Giorno dal 1972 al 1980. Ma nel suo cuore era rimasto il Corrierone. Si diceva che di notte, con il cappello ben calcato sugli occhi, per non farsi riconoscere, passasse come un fantasma in via Solferino, per rivivere sensazioni remote. Certo aveva molti difetti, che si acuirono negli anni del Giorno: arrivava come d’abitudine tardi al giornale, rifaceva le pagine e il lavoro (sempre educatamente elogiandolo!) svolto dai suoi collaboratori; perdeva i treni, come si dice in gergo, fondamentali per la distribuzione. Aveva smarrito forse la passione, ma non l’autorevolezza. Erano gli anni del terrorismo. Ricordo una riunione in cui telefonò a un illustre docente e gli disse: «Professore, mi raccomando scriva quello che vuole, però… Primo, deve dire che… Secondo, aggiunga che… Terzo, è importante scrivere con chiarezza che… E può finire così. Mi raccomando: chiaro e preciso. Scriva ciò che vuole!». Era sfrontato e ingenuo come un bambino.
Chi avesse desiderio di conoscere meglio Afeltra, le sue nostalgie di Amalfi (non vi tornò più, dopo la morte di sua mamma e di un altro fratello, un amatissimo monsignore) e la passione inesauribile per Milano, non deve far altro che acquistare uno dei suoi struggenti libri: ricordo Spaghetti all’acqua di mare; Positano darà la luce al mondo; Milano amore mio; La spia che amò Ciano. Dei suoi affetti e amori, lui ricordava la generosità ospitale di una portinaia, che lo accolse in un momento di difficoltà appena era arrivato a Milano. Lui le dava una mano due ore al giorno, lei lo chiamava Sciur Felter. E il turbamento che provò quando una commessa (aveva un debole per le commesse) gli chiese: «Mi fai vedere casa tua?»; si spogliò disinvoltamente e alla fine gli chiese, con ruoli rovesciati: «Quando ci rivediamo»?
Per me, di Sciur Felter (che si è spento a Milano nel 2005, a 90 anni) restano un motivo di orgoglio eu n rimorso. L’orgoglio? Gaetanino era famoso perché capiva il talento, perciò mi conforta il pensiero che mi abbia dato stima e attenzione. Il rimorso? Mi assunse come caporedattore al Giorno, per dargli una mano. Ma non riuscii ad ambientarmi, ero tormentato da questioni private. Mi dimisi subito. Gli chiesi scusa e mi perdonò.
di Cesare Lanza, La Verità