Il plebiscito atteso non c’è stato. Al suo posto una vittoria striminzita con molte e troppe irregolarità e brogli, come affermano l’Osce, l’organizzazione per la sicurezza e la cooperazione europea, e l’opposizione interna. Gli stessi partiti che sostenevano il presidente hanno registrato un notevole calo di consensi.
Ma Erdogan dichiara che: “È una scelta per il cambiamento e la trasformazione”. Parole svuotate di senso, peggio capovolte nel loro significato (avrebbe detto Bertolt Brecht). Il referendum turco è andato in scena in uno stato di emergenza. Mass media tutti da un parte, quella del “vincitore”; criminalizzazione e intimidazione fisica dell’opposizione; deputati, quelli del partito filo turco, da tempo messi in condizione di non nuocere a guidatore unico; giornalisti in galera già da tempo, un record mondiale in quest’ultimo campo; un presunto colpo di stato alle spalle, se non direttamente costruito certamente manipolato e utilizzato per l’immancabile giro di vite che ha portato all’arresto di magistrati e a un “repulisti” nell’organizzazione statuale.
Eppure l’esito del voto è un paese spaccato in due. Non solo politicamente o etnicamente, ma anche geograficamente e socialmente. Nelle città o ha prevalso il No o comunque è stato forte, mentre nella Turchia rurale il Sì ha avuto la meglio. La democrazia è finita. La previsione della vigilia, alimentata anche da autorevolissimi commentatori, basata su una alternativa secondo la quale se Erdogan avesse vinto restava l’uomo solo al comando, se avesse perso avrebbe accentuato la repressione, alla luce di questo voto si è rivelata inesatta.
Si verificheranno entrambe le cose. In questo quadro Erdogan si avvia a governare fino al 2034 qualunque sia l’esito delle elezioni. Promette la reintroduzione della pena di morte, o tramite legge o tramite un nuovo referendum. Quella pena che era stata abolita quando la Turchia aspirava a fare parte dell’Unione europea e da questa fu respinta, salvo concordare con essa inqualificabili accordi per contenere i flussi migratori.
Il miope comportamento della Ue, il classico apprendista stregone, ha oggettivamente favorito la violenta svolta autoritaria interna e il delinearsi di un disegno imperiale panturco in politica estera. Lo stesso che ha permesso al governo di Ankara di giocare molti parti in commedia, dal via libera alle forze jihadiste, ai foreign fighters in funzione anti Assad, con il beneplacito degli Stati Uniti, dei sunniti sauditi e qatarini, fino a ricucire i rapporti con la Russia di Putin, malgrado gli aerei abbattuti, anche per contrastare l’avanzata dei curdi siriani. E tutto questo restando uno dei paesi fondamentali della Nato. Non a caso tanto Trump quanto il portavoce del Cremlino sono stati i primi a congratularsi con il Reis turco per la sua “vittoria”.
In Europa le parole dell’Osce sono finora cadute nel vuoto. Diverso sarebbe se anche altre istituzioni dell’Unione europea si pronunciassero sulle irregolarità del voto turco. Ed è quello che i governi, a partire dal nostro, dovrebbero chiedere e fare. In ogni caso le opposizioni interne non intendono darsi per sconfitte.
La loro voce e la loro lotta non possono essere lasciate sole. Dove non sono arrivate le istituzioni europee, per miopia e per gretti interessi, può giungere la mobilitazione democratica e popolare e la solidarietà internazionale verso chi subisce la violenza e l’oppressione del regime di Erdogan. La questione turca è la cartina di tornasole dell’esistenza, o meno, di un’Europa come soggetto politico e fattore di pace sullo scenario mondiale.
The Huffington Post