C’ erano una volta/ Leonardo Sciascia

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di Cesare Lanza

Fu il grande nemico di Moro e l’unico che cercò di salvarlo

Lo scrittore tentò inutilmente di far ascoltare le parole del leader della Dc in ostaggio
La famosa frase sui «professionisti dell’antimafia» era rivolta al Csm, non ai giudici

«Né con lo Stato né con le Br». Questo celebre slogan è attribuito erroneamente a Leonardo Sciascia, che mai lo scrisse né lo pronunciò. Nell’ errore cadde anche (non c’è da stupirsi) Oscar Luigi Scalfari, con un volgare approccio insultante, insieme con tutti gli opportunisti che dominano l’Italia della retorica fermezza, intrisa nel compromesso, cosiddetto storico o pedestre, e della corruzione, invisibile o manifesta. «Né con lo Stato né con le Brigate rosse» era uno slogan che riassumeva la posizione di Lotta continua e del Manifesto. Il pensiero di Sciascia era diverso e più complesso. Mi piace pensare che lo slogan gli sia attribuito da coloro che lo amano – come me – considerandolo attiguo alla strutturale vocazione dello scrittore a riflettere imparzialmente, a distinguere, a non lasciarsi trascinare dalle fazioni. In un’intervista a L’Espresso, nel 1979, Leonardo stesso precisò: «Non ho mai formulato questo slogan. Pago le tasse allo Stato italiano, non le pago né le voglio pagare alle Br. Questo slogan è nato dalla deformazione della mia valutazione negativa della classe politica italiana, valutazione che continua a essere tale. Ma ciò significa che questa classe dirigente cambi, non che si avveri il sogno delle Brigate rosse».
La deformazione era nata un anno prima, nei giorni di accese polemiche perché a Torino 16 persone si rifiutarono di fare i giurati nel processo contro Renato Curcio, leader dei brigatisti, e altri terroristi: adducendo certificati medici incentrati sulla depressione. Nella generale e furente riprovazione, Sciascia fu tra i pochissimi (con Eugenio Montale e Alberto Moravia), a capire le ragioni del rifiuto: i giurati non si sentivano tutelati. «Io non ho nessuna affezione per questo Stato, così com’è», era il suo pensiero. Mi sento turbato, mi vengono i brividi al pensiero che, 40 anni dopo, la classe dirigente italiana non è affatto cambiata, anzi peggiorata. Sono vincenti i furbi, i corrotti, i machiavellici, quelli disposti a ogni compromesso pur di conquistare il potere. Molte volte ho pensato, e scritto, quanto sarebbe oggi prezioso Sciascia, o un personaggio simile a Sciascia, nei giorni della decadenza occidentale, un maestro di pensiero credibile nell’ approfondire e nell’ indicarci una strada, soluzioni e l’importanza degli ideali. Non conoscevo Sciascia. Fu lui a cercarmi, alla fine degli anni Settanta. Lo ammiravo, leggevo i suoi libri, adoravo il suo linguaggio. E mi indignavo per la violenza e la grossolanità degli attacchi – in primis di Eugenio Scalfari, scatenato su Repubblica -che lo perseguitavano. Un giorno scrissi un articolo a sostegno di Sciascia: la sua libertà, peraltro ovvia, di scrivere ciò che volesse; la qualità, poco riconosciuta, di ciò che pensava. Dirigevo Il Lavoro, un giornale con una diffusione limitata a Genova e alla sua provincia, famoso perché era stato organo del Partito socialista e, come tale, diretto per 22 anni da Sandro Pertini, all’epoca presidente della Repubblica. Non conservo quell’ articolo, ricordo solo che mi esprimevo furiosamente. Mi arrivò -sorprendentemente – una bella lettera di Sciascia, da Parigi. Quattro paginette scritte a mano. Mi sono sempre chiesto come fosse entrato a conoscenza del mio intervento: certo qualche suo conoscente, o ammiratore, glielo aveva segnalato. Il nostro rapporto nacque così. Mi piacerebbe definirlo un rapporto di amicizia, fu semplicemente amichevole: di rispetto e devozione da parte mia, di attenzione e simpatia – forse di curiosità – da parte sua. Aveva 21 anni più me. La prima volta che ci incontrammo fu a Roma: mi invitò a pranzo. Ricordo che ero turbato, emozionato. Eppure avevo già diretto 3 giornali, avevo incontrato politici famosi. Ma questo omino piccolo, pensieroso e in apparenza fragile, mi intimidiva. Avevo ordinato un riso all’ inglese, ebbi difficoltà a ingoiare i chicchi: sapevo di avere qualche problema, a volte, nella deglutizione. A un certo punto sembrava che stessi per soffocare. Leonardo, stupito prima e poi impressionato, si preoccupò. Una scena pietosa, o ridicola. Che mi torna in mente ogni volta che ho difficoltà a deglutire il risotto. Altre volte, di passaggio a Milano, venne a trovarmi nella redazione di Contro, un settimanale che mi ero inventato su istigazione di Saro Balsamo, un editore che voleva redimersi dai successi nella pornografia (da cui ricavava montagne di denaro, ma nessun riconoscimento). Contro era sgangherato, anarcoide, contraddittorio e inaffidabile. Era avanti su molte cose – inconsapevolmente – di 10 o 20 anni. Aveva un unico valore: nessuna soggezione; impertinenza e ostilità verso la classe politica. E forse questo era l’unico motivo alla radice della simpatia di Sciascia. Contro ebbe un successo inatteso, ma non arrivò a un anno di vita, Balsamo decise di chiuderlo, forse ricattato dai partiti che gli lasciavano via libera per la pornografia. Da gran signore liquidò tutti fino all’ultima lira. Le chiacchierate con Sciascia restano scolpite nella mia memoria. Lui ragionava con toni sommessi, mai un attimo di veemenza, rarissimi i sorrisi, inesauribili gli approfondimenti, inesistenti le compiacenze e i compiacimenti. A volte pensavo che fosse un filosofo più che un grande scrittore. A volte un chirurgo del pensiero, per la lucidità nell ’analizzare, nell’ intervenire. C’è chi ha scritto che era soprattutto un politico: non concordo. Era uno scrittore dotato di una particolare visione politica, sociale, filosofica della vita. Mi è rimasto impressa la sua cruda, e forse inoppugnabile, valutazione di Aldo Moro. «Non era uno statista, non aveva il minimo senso dello Stato…». Non aveva mai avuto stima di Moro politico, aveva scritto di lui giudizi terribili. Ma si schierò con Moro rapito, nella sua solitudine, abbandonato dalla Dc e dalle forze politiche che avrebbero potuto salvarlo. Tradito quasi da tutti. Trattato come un burattino nelle mani degli aguzzini. Come fosse un pazzo. Era stato definito da tutti un grande statista? D’improvviso non lo era più! Era diventato un uomo vile, terrorizzato dalla morte. E fu perfino censurato. Sciascia invece, sempre fuori dal gregge, sottolineò che il linguaggio criptico e incomprensibile di cui Moro si era servito per arrivare ai vertici della politica, e a dominarla, fu paradossalmente lo stesso modo di esprimersi, in un codice arcano, che lo condusse alla morte: perché le sue lettere dalla prigionia, in cui Moro mandava messaggi importanti, furono bollate come incomprensibili, per incompetenza o malafede. Anche da Francesco Cossiga, all’epoca ministro dell’Interno. Che però 4 anni dopo affermò di essersi pentito, di essere stato plagiato da Enrico Berlinguer; e ammise che le lettere non furono mai analizzate con serietà. Sciascia invece capì subito: poche settimane dopo la morte di Moro, in due interviste a La Sicilia e poi a Panorama di – mostrò come il grande democristiano era sempre stato uguale a se stesso: mai vile, senza paura della morte, sempre tentando di farsi capire e di trovare una via di salvezza.
E disse che quando Moro si rivolgeva alla «famiglia» non era un messaggio per i parenti, ma per la Democrazia cristiana. E che la terribile frase «Il mio sangue ricadrà su di voi» non era una maledizione, ma la predizione della fine della Dc, che da quel giorno cominciò a decadere e a dissolversi. Di Sciascia ricordo anche la riluttanza a esprimersi in pubblico, peggio se nel ruolo di esponente politico. Era stato eletto da Marco Pannella nelle liste radicali, in Parlamento era sollecitato da Marco a intervenire. «Sono argomenti tuoi, i nostri argomenti!» strillava Pannella. E Sciascia, con timidezza senza cedimenti: «Ma io non sono un conferenziere, sono uno scrittore». Nella sua gloriosa capacità di scrittura, protesa alla ricerca di giustizia e verità, era inevitabile che Sciascia cadesse in qualche infortunio. Il più clamoroso fu, e resta, un suo articolo sul Corriere della Sera, in cui mise nel mirino «i professionisti dell’antimafia» . L’espressione, diventata oggetto di polemiche, è valida ancor oggi. Ma è un argomento spinosissimo. Perché, oltre a politici e magistrati e a opinionisti concentrati sulle loro ambizioni, nella lotta alla mafia ci sono anche magistrati che si sono battuti con audacia e passione, e hanno perduto la vita. Come fu per Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. È corretto puntualizzare che Sciascia aveva nel mirino il Csm, per abusi e incongruenze. Qualche riga sulla sua vita.
Nasce a Racalmuto, in provincia di Agrigento, l’8 gennaio 1921. A 14 anni si trasferisce a Caltanissetta, il suo insegnante è Vitaliano Brancati. Nel 1941 è maestro elementare, poi impiegato, in attività sulla realtà contadina siciliana. Nel 1952, il primo libro, Favole della dittatura, nel 1956 Le parrocchie di Regalpietra. Poi a Roma, in un ministero, poi torna Caltanissetta e pubblica il primo grande successo, Il giorno della civetta. Nel 1966 il suo secondo grande successo, A ciascuno il suo. Dal 1967, a Palermo, solo scrittura e vita politica. Nel 1970 La corda pazza, sulla sicilitudine, come la chiama lui, nel 1974 Todo modo, accolto aspramente da Chiesa e Dc. Nel 1975 il romanzo La scomparsa di Majorana, sulla sparizione del famoso scienziato, e nel 1977 pubblica Candido (ispirato all’ opera di Voltaire). Nel 1979, si candida con i Radicali sia in Europa che alla Camera. Sceglie Montecitorio e fa parte della commissione d’inchiesta sul rapimento di Moro, su cui nel 1978 aveva scritto L’affare Moro: spiega la sua linea favorevole alla trattativa, molto criticata sia a destra che a sinistra. Lascia la politica e si trasferisce a Parigi. Muore per un tumore a Palermo il 20 novembre 1989 a 68 anni.
Di recente, grazie alle ricerche di una mia collaboratrice, ho trovato sul Web l’ appassionata difesa che Maria Andonico, sua moglie, fece di fronte agli attacchi incredibili di alcuni scrittori, come Sebastiano Vassalli. E anche un’ intervista di una delle sue due figlie, Anna Maria, (l’altra si chiama Laura), con aneddoti su Sciascia casalingo, affettuoso papà. Se siete interessati, cercatele: non vi deluderanno. Ma sapete bene che, qui, racconto soprattutto ciò che ho visto e seguito da vicino. E vorrei ribadire ciò che mi piacerebbe: ritrovare in salotto Leonardo, tempestarlo di domande su l l ’Italia incasinata di questi anni, sull’ Occidente in crisi, sul confronto tra personaggi di ieri e di oggi. Lui mi insegnerebbe a riflettere e a capire.

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di Cesare Lanza, La Verità